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 2018  settembre 28 Venerdì calendario

Strage di Erba, i fan di Rosa & Olindo contro i sopravvissuti

“Ma non ti vergogni ad andare in giro tranquillamente con due vecchietti innocenti in carcere?”. È con queste parole che pochi giorni fa Pietro Castagna è stato braccato per strada da un giornalista di quella nota trasmissione tv che da tempo ha deciso di sostituire con inviati incravattati i giudici dei tribunali. Pietro Castagna non è un mafioso che l’ha fatta franca. Era il fratello di Raffaella, moglie di Azouz Marzouk, uccisa nel 2006 a Erba con sua mamma Paola, il figlio Youssef di due anni e la sua vicina di casa Valeria da Rosa Bazzi e Olindo Romano.
Una strage entrata nell’immaginario collettivo e al centro di tre processi con identiche conclusioni: ergastolo. Rosa e Olindo, si legge nella sentenza di Cassazione, uccisero “mossi da odio e grettezza covati per lungo tempo”. È stato rigettato anche il ricorso della difesa a giugno. Eppure, nonostante 26 giudici in 12 anni abbiano ritenuta certa la colpevolezza dei due coniugi, la corrente innocentista non è mai stata così agguerrita. Con i social pronti all’indignazione a comando e l’orda di programmi a tema cronaca nera, riaprire mediaticamente casi archiviati e lavorare sulle suggestioni è facile.
Da qualche mese, l’esercizio del sospetto da bar è toccato alla famiglia Castagna. Ha iniziato La Nove, ad aprile, con un documentario dal titolo modesto, Tutta la verità, in cui si metteva in fila una serie di argomenti (ampiamente smontati in sede giudiziaria) che deciderebbero l’innocenza dei poveri Rosa e Olindo. Legittimo, se non fosse che il documentario non si limita a questo, ma getta una luce sinistra su Pietro Castagna. Istillare dubbi di colpevolezza su una persona che non è mai stata neppure indagata e che ha perso in quel modo barbaro madre, sorella e nipote sulla base di fuffa, è una schifezza da un punto di vista giornalistico e una barbarie dal punto di vista umano.
Cosa c’è contro di lui? Il documentario fa ascoltare un’intercettazione in cui, qualche giorno dopo la strage, Pietro scherza con un amico al telefono: “Tra un po’ daranno la colpa alla Franzoni!”. Come se il black humor fosse il marchio dell’assassino. “La vita va avanti anche dopo una tragedia, una battuta talvolta è un modo per sopravvivere. Ricordo che un giorno ero in ditta con tutti i miei collaboratori, sotto c’erano decine di fotografi. Mi chiesero cosa dovessero fare e io per scherzo dissi di scendere e dare loro i cataloghi dell’azienda. Questo fa di me un mostro?”, mi racconta Pietro.
Ma il mostro si crea anche buttando lì che abbia mentito. Quindi si sottolinea che tale Chencoum, tossicodipendente cliente di Azouz, dichiarò di aver visto un tizio con la barba rossiccia qualche giorno prima della strage parlare con due arabi proprio davanti alla corte. Lo stesso testimone poi sparisce nel nulla e un suo ex compagno di cella lo sconfesserà, ma questo il documentario si dimentica di dirlo.
Infine, il grave indizio contro Pietro è che in quei giorni lui usava la Panda della madre e poco dopo il delitto quella macchina “venne fatta sparire”. “La donammo a un istituto di suore, lo raccontai io al giornalista che la trovò. Mio padre soffriva nel vederla in cortile. Facemmo sparire da casa anche i giochi di Youssef, quando ci siamo accorti di aver lasciato un pannolino sulla finestra e invece quello ci sfuggì…”, mi dice Beppe in lacrime. E la casa della strage ebbe la stessa sorte, fu donata alla Caritas.
Perfino la fede di Carlo viene utilizzata biecamente nel documentario per buttare lì la tesi dei figli mostri e del papà complice. Tra i tanti possibili, viene infatti mostrato un filmato in cui l’uomo dice che perdona Olindo e Rosa e che quando si parla di perdono bisogna pensare anche ai genitori degli assassini. E capite quanto sia meschino associare tale frase a un servizio che getta delle ombre tremende sui suoi figli. Carlo Castagna morirà un mese dopo questo documentario colpito da una leucemia fulminante e il giorno stesso del suo funerale La vita in diretta manderà in onda un servizio in cui ancora una volta si buttano lì dei dubbi sui Castagna.
“Non siamo contrari per principio alle tesi innocentiste, ci chiediamo solo perché gettare fango su di noi. All’epoca siamo stati intercettati, hanno analizzato tutti i nostri conti, ci hanno interrogati, ma poi perché avremmo ucciso mamma, sorella, un nipotino di 2 anni?”. Già, il movente. Beppe e Pietro erano in rotta con la sorella per colpa di Azouz, non lo hanno mai negato. “A noi Azouz piaceva all’inizio, avevamo comprato anche gli abiti per il matrimonio. Poi abbiamo scoperto che era uno spacciatore e che era violento con Raffaella”, mi racconta Beppe. “Io per farla ragionare l’ho portata con me in vacanza in Martinica, al ritorno mi sono arrivati 4.500 euro di bolletta, lei mi prendeva il telefono per chiamarlo di nascosto, ho capito che non c’era nulla da fare”.
Raffaella aveva poi un’assicurazione sulla vita di 100.000 euro e aveva chiesto un anticipo di eredità al padre, dice il documentario. “All’epoca mio padre aveva 60 anni e mia madre 55, nessuno parlava di eredità. Raffaella per giunta aveva ricevuto la casa in cui viveva con Azouz in dono da mio padre e nessuno di noi si era mai opposto. Noi poi siamo sempre stati più che benestanti, 100.000 euro non cambiavano la vita a nessuno”.
Anche se fossero stati spietati assassini, non si capisce perché progettare lo sterminio di madre, sorella e nipote di due anni, anziché far fuori solo Azouz. Che tra le altre cose, solo dalla Cassazione in poi, è diventato improvvisamente innocentista. E che nel documentario si dichiara molto turbato dall’intercettazione di Pietro che fa una battuta sulla Franzoni.
Peccato che il documentario non ci abbia fatto ascoltare le intercettazioni in cui quei giorni Azouz diceva che era il periodo più bello della sua vita, che lo pagavano anche per fare sesso, faceva accordi economici con Fabrizio Corona che fu invitato da lui al funerale di Raffaella e Youssef in Tunisia. Il santo Azouz, che spacciava e uscì dal carcere grazie all’indulto e che è attualmente in Tunisia perché espulso dall’Italia. E che ha fatto causa ai Castagna perché vuole la metà del valore della casa della strage che i cattivi della storia, gli avidi Castagna, hanno donato alla Caritas.
“Nostra mamma ha fatto una vita orrenda negli anni che hanno preceduto la sua morte. Ricordo che una volta dovette andare al pronto soccorso a prendere il fratello di Azouz che era stato accoltellato. Mio padre ha accettato che Raffaella e Fefè fossero seppelliti in Tunisia come aveva voluto Azouz. L’ultima volta andammo nel 2009, lui aveva con sé la tela e il cavalletto e dipinse lì, sulle tombe. Era dura saperli lontani, ma un giorno mio figlio disse ‘il cielo è lo stesso’, aveva ragione lui”, racconta Beppe, sempre con le lacrime agli occhi. Pietro parla meno, è visibilmente provato, è il più aggredito da questa vicenda. “Oltre a farci male, questa gente non ha capito che noi per primi non ci saremmo mai accontentati di una mezza verità. Se qualcuno ritiene che non abbiano indagato abbastanza su di noi, che lo facciano, chiedeteci quello che volete. Ma se non avete prove, vi prego, lasciateci vivere in pace”. E dopo 12 anni, sarebbe ora.