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Intervista a Marina Abramovic. «Sono una strega ma la mia arte trasforma il mondo»
Con la sua prima, monumentale retrospettiva italiana, intitolata The Cleaner, Marina Abravomic, grande madre dell’arte performativa, realizza un imponente repulisti esistenziale. Sembra volersi pulire persino dal suo aggressore, purificandolo con il proprio sciamanico perdono. Si sa che pochi giorni fa, mentre era immersa nella folla della mostra con cui Palazzo Strozzi celebra a Firenze (fino al 20 gennaio) il suo cinquantennale percorso artistico, un uomo l’ha colpita con un quadro raffigurante lei, l’ormai mitica Marina: «Recava un dipinto del mio volto distorto e me lo ha sbattuto in testa intrappolandomi nella cornice – rammenta – Le guardie lo hanno allontanato subito da me, ma io avrei voluto parlargli per offrirgli il mio perdono. Non posso esprimere altro che la mia assenza di rancore». Oggi l’artista serba parla così: invoca pace, dichiara «amore per chiunque», esalta il Dalai Lama («sa spingermi nell’intimo di me») e reputa necessario «sviluppare in sé molto spazio». Mette in guardia dal rischio che «la vita venga saturata qualora non ci si pulisca nel corpo, nella mente e nelle emozioni». Per questo, con The Cleaner, s’è messa a fare pulizia di tutto: della political correctness «che inquina le volontà degli artisti», delle censure che si opposero alle sue feroci esibizioni giovanili, dei tagli che s’incise sulla carne, dei riti grondanti di sangue con cui si scagliò contro la guerra in Bosnia.
Ora che ha 72 anni e ha performato in lungo e in largo nel pianeta, la più strega fra le streghe («se fossi nata nel Medioevo mi avrebbero mandata al rogo») è una donna bella e potente, col serpentone lucido della treccia nera che le scalda il petto. Da New York, dove abita fra una trasmigrazione e l’altra, è arrivata in Italia insieme al suo folto staff e al suo ultimo, giovane moroso americano. Durante l’intervista sorride spesso. Più sensuale che sacerdotale.
Dove intende condurci, Marina, la pulizia riassuntiva di "The Cleaner"?
«In zone mai del tutto conoscibili. Dolore, violenza, ansia di possesso, panico della morte, eros e voglia d’assoluto.
Ho cercato di sfidare i limiti, di scoprire terre nuove. Ho usato il mio corpo come un pittore usa la tela. Sono rimasta umile, non mi sento importante: ogni individuo è un grano minuscolo nel cosmo, un frammento infinitesimale del tutto».
Ha lavato uno scheletro, rosolato il suo corpo nel centro di una stella di fuoco, spazzolato montagne di ossa sanguinolente. Pulizia come espiazione?
«No, nessun sacrificio. Per mostrare la libertà dobbiamo aprirci al dolore e io l’ho accolto. L’intera storia dell’arte si occupa delle tre cose che ci terrorizzano di più: pene fisiche, sofferenze emotive, morte. Ne siamo paralizzati.
Provo ad andare oltre la paura».
Ha mai temuto che certe performance potessero ucciderla?
«Sì. In un’azione del ’74 a Napoli avevo messo a disposizione del pubblico vari oggetti da usare a piacimento sul mio corpo fra cui una pistola, un coltello, fruste, chiodi… Mi assumevo ogni responsabilità. A un tratto montò una tale tensione da farmi sentire che non ne sarei uscita viva. Nei capelli mi spuntò una ciocca bianca.
D’altronde fare performance era per me questione di vita o di morte. Mi definivano pazza, sadica, masochista, perversa. Ma non potevo agire altrimenti».
Qual è la sua opinione sul gran parlare odierno dell’abuso del corpo femminile?
«Niente discorsi politici: posso solo parlare di me. Se qualcuno tenta di sopraffarmi sessualmente gli taglio le palle. Credo nell’autonomia dell’essere umano. Totale.
Quindi anche fisica e sessuale».
Oltre a film, foto, opere e installazioni, "The Cleaner" include il rifacimento di azioni dal vivo come "Imponderabilia": negli anni ’70 Marina e Ulay, suo simbiotico partner per anni, divennero i nudi stipiti di una porta in cui passavano visitatori sfiorando i loro genitali. Le piace veder rinascere quella coppia in giovani performer?
«Mi rende felice constatare come il mio lavoro possa esistere anche fuori da me. La ri- performance ha messo ordine nel caos. Un tempo nessuno prendeva sul serio gli artisti performativi. Poi tutti hanno cominciato a copiarli: teatro, cinema, videoclip, moda… Ora c’è una Fondazione col mio nome e chi rimonta i pezzi deve studiare il materiale. La loro qualità va preservata».
Può anticipare qualcosa sul progetto che nel 2020 destinerà alla Royal Academy di Londra?
«Posso dirle solo che sto lavorando sulle idee di dissolvenza ed evanescenza. Si suppone che la nostra fine sia immersa nell’oscurità. Invece può esserci luce».
Dalle azioni fisiche è approdata a eventi mentali basati su rapporti empatici: al MoMA di New York, nel 2010, guardò negli occhi 1545 persone in un rituale durato mesi.
«Ognuno vuol sentirsi parte di una comunità, E ciò accade sempre di più. Quando finivano il turno, gli 86 custodi del MoMA si toglievano la divisa e facevano la fila per farsi fissare da me come gli altri. Oggi è il pubblico la mia vera opera. La performance è un’arte trasformativa: nel momento in cui si produce, mobilita le forze della vita in modo concreto, presente, cellulare, molecolare. Si creano nessi e le energie convergono in un’unità vitale che arti come la pittura e la scultura non possono raggiungere».