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 2018  settembre 28 Venerdì calendario

Andrea Marcolongo: «Il greco ci insegna il mestiere di vivere»

Andrea Marcolongo parla del greco come fosse una storia d’amore. Una storia iniziata sui banchi del liceo quando era un’adolescente e mai finita. Il suo libro d’esordio La lingua geniale è un fenomeno editoriale: da quando è stato pubblicato due anni fa con l’editore Laterza, ha venduto più di 100 mila copie ed è stato tradotto in nove lingue. «Sono partita da una domanda, mi sono chiesta: ma esattamente della grammatica greca cosa ho capito?», dice Marcolongo. La lingua geniale (sottotitolo: 9 ragioni per amare il greco) è un saggio allegro ed erudito scritto in prima persona, come fosse il diario di bordo appassionato di una giovane viaggiatrice nell’antichità. Tra notazioni grammaticali e citazioni dai classici, straripa di vita: il libeccio, Livorno, la primavera a Sarajevo, dove la trentunenne Marcolongo oggi ha scelto di vivere, e dove il libro è nato: «Quei tre mesi trascorsi lì a scrivere sono stati i più felici della mia vita. Scrivere questo libro mi ha costretto a prendermi sul serio».
Oggi ha scritto un nuovo libro La misura eroica (Mondadori) ed è impegnata in un tour transcontinentale, insegna alla Scuola Holden e in un liceo di Nancy, e tiene un laboratorio di greco nell’università messicana Unam.
Prevedeva che il libro sarebbe diventato un bestseller?
«No, ma è questo il bello. Ero lì a Sarajevo e non avevo niente da perdere. Nessuno credeva in me, ero completamente libera».
Quando è scattato in lei l’amore per il greco?
«Ero una ragazzina di quattordici anni, mi è bastato vedere la prima parola scritta in greco. Mi ha aperto immediatamente un occhio interno, uno sguardo particolare sulla vita».
Per un’adolescente non è scontato questo invaghimento per una materia ostica.
«Quell’età è la fase più complicata della vita, è vero. Ero una ragazzina solitaria, frequentavo il liceo classico a Crema, il greco era il mio rifugio, il mio piccolo mondo antico. È stato lo stesso quando mi sono trasferita a studiare lettere antiche all’università di Milano.
Avevo appena perso mia madre, non sapevo più chi ero, dovevo recuperare il rapporto con il tempo».
Il primo capitolo del libro è proprio sulla diversa concezione del tempo nei greci.
«Studiando il greco, mi si è spalancato il mondo. Ho scoperto che si poteva ragionare sul come e non sul quando, perché esisteva una temporalità interiore, intima, in cui veniva a cadere la distinzione tra presente, passato e futuro. Per i greci è dal dolore che si apprende ad essere felici».
Cosa vuol dire essere felici per lei?
«Adoro le etimologie. Felice viene da felix che significa "essere fecondi", "mettersi a frutto".
Detesto le lamentele. Non è che non veda i problemi, la mia non è la felicità dell’idiota, ma vedo intorno a noi un senso di resa che non mi piace. I problemi si possono risolvere».
Crede serva anche a questo lo studio del greco? A cercare nei testi antichi consigli per vivere?
«Citando Cesare Pavese, il classico insegna il mestiere di vivere. Non sono una paladina del liceo classico ma del classico. Oggi l’ignoranza è diventata un valore e tutto si misura in "utile" o "inutile". Ma il sistema educativo non può essere basato sull’utilità, non deve servire a qualcosa ma a qualcuno. Leggere Platone insegna un metodo logico che puoi portare con te là fuori nel mondo. Omero parla al presente, non ha scritto per trasmetterci la grammatica. Leggendolo lo riportiamo in vita, lo mettiamo in dialogo con Virgilio, Dante, Virginia Woolf, Marguerite Yourcenar...».
E qui veniamo al dunque, la grammatica. Lei ci va giù dura, scrive che i nostri sistemi scolastici sono "i più retrogradi e ottusi del mondo".
«È l’unica parte del libro che cambierei. Quando l’ho scritto non entravo in un liceo da dodici anni, ricordavo la scuola dei miei tempi, ma gli insegnanti che ho poi incontrato mi hanno fatto cambiare idea. E i miei ragazzi, che incontro da Machu Picchu alla Puglia, sono la mia forza».
I ragazzi del classico sono davvero diversi dagli altri?
«Spesso scelgono il classico contro il parere dei genitori, che magari gli dicono di studiare il cinese perché è più utile. Ma oggi rivendicare le proprie passioni è la cosa più rivoluzionaria che c’è».
Lei racconta anche le figuracce. Come quando in una versione sul "Ratto delle Sabine" tradusse "raptum" con "topo".
«Sto collezionando tante confessioni. Un mio lettore mi ha raccontato di aver tradotto aper (cinghiale) con ape (ride)».
Il linguaggio si è banalizzato?
«Siamo diventati pigri. Crediamo che per essere semplici bisogna abbassare il livello. C’è tanta sciatteria. Invece, come dice Kavafis, i pensieri devono essere alti».