Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  settembre 28 Venerdì calendario

Il caso Mediobanca. Perché non conviene scalare Piazzetta Cuccia

Mediobanca è trattata a sconto in Borsa rispetto al valore delle sue attività, ma l’illusione di guadagnarci scalandola si scontra con il paradosso che facendola a pezzi si avrebbe l’effetto di ricavarne un valore minore di quanto pagato per rilevarla. Tant’è che il dossier preparato da Blue Bell su questa falsariga non ha convinto finora né il fondo Elliott né gli altri hedge fund al quale è stato sottoposto. Mediobanca capitalizza in Borsa circa 8,2 miliardi, la sola partecipazione in Generali vale 3,16 miliardi. Delle due l’una: se è corretto il valore delle partecipazioni – oltre al 13% di Generali, anche le quote intorno al 6% in Italmobiliare e Rcs (queste ultime classificate come “disponibili per la vendita”) – l’attività bancaria è valutata poco più di 4 miliardi, solo poco più di 8 volte gli utili. Se, al contrario, è correttamente valutata l’attività bancaria – 6 miliardi a multipli di settore – le partecipazioni sono complessivamente valutate dal mercato, per differenza, solo poco più di due miliardi, cioè alla metà
del book value. 
Comunque la si giri lo “sconto” in Borsa è indubbio.
Mediobanca non è più solo banca d’affari, ma prevalentemente una banca retail. Applicando i multipli medi per le diverse attività sugli utili storici (quelli aggiornati alla chiusura dell’esercizio al 30 giugno), si arriva al risultato di cui sopra. L’attività consumer, che produce 320 milioni di utili, a un p/e di 12 volte vale 3,8 miliardi. Il Cib (corporate & investment banking) – 270 milioni di utili – con un p/e di 10 dovrebbe valere 2,7 miliardi. Il wealth management – 70 milioni di utili – a un p/e di 13 vale 900 milioni. Alla somma delle parti va detratto il valore, negativo, della funzione holding (che comprende il leasing, in pari, ma anche il servizio tesoreria, i costi centrali e sconta tutti gli accantonamenti ai fondi sistemici): 150 milioni di perdite moltiplicate per 10 danno un valore negativo di 1,5 miliardi. Tirando le somme, si arriva a quantificare in 6 miliardi il valore “corretto” delle attività bancarie. Le partecipazioni hanno invece un book value sostanzialmente allineato con le quotazioni di mercato, pari a 3,9 miliardi complessivi. Sommando anche queste si arriverebbe a quasi 10 miliardi di valorizzazione “piena” contro i poco più di 8 miliardi dell’attuale capitalizzazione di Borsa di Mediobanca.
Perchè dunque lo “spezzatino” non sarebbe in grado di soddisfare gli appetiti speculativi? Staccare Generali da Mediobanca – a prescindere dal fatto che la partecipazione nel Leone contribuisce per un terzo ai profitti netti del gruppo – vorrebbe dire abbattere il patrimonio netto tangibile dell’istituto da 8,5 miliardi a 5,3 miliardi, con inevitabile strascico sul voto delle agenzie di rating. Ma non solo. Aumenterebbe il costo della raccolta, l’attività di lending non sarebbe più sostenibile agli attuali livelli, la partecipazione ai consorzi di garanzia per gli aumenti di capitale – che si basa contrattualmente su una percentuale del patrimonio – andrebbe necessariamente ridimensionata. E la banca, ridotta di conseguenza a una realtà medio-piccola, uscirebbe da tutti gli indici di Borsa, con inevitabile marginalizzazione sul mercato e riflessi sulle quotazioni.
Ma se fosse una banca ad approfittare dello sconto non si ovvierebbe il problema? La storia dice che nessuna banca d’affari è sopravvissuta all’abbraccio, per quanto apparentemente rassicurante, di un istituto di credito “ordinario”. Tant’è che l’attuale management di Mediobanca avrebbe fatto presente ai potenziali interlocutori – i report degli analisti hanno più volte sollevato la suggestione di una fusione con Unicredit o Intesa – che mai considererebbe l’ipotesi, perchè fonte di “dissinergie” distruttive di valore piuttosto che di virtuose sinergie.