Il Messaggero, 28 settembre 2018
La moda musulmana in mostra a San Francisco
Velo sì, velo no. Il velo come strumento di oppressione o, per paradosso, simbolo di libertà di scelta e diritto da difendere, in reazione al tentativo occidentale di vietarlo. Nonostante le controversie, ora la copertura orientale, dall’hijab al niqab, dall’abaya (il lungo camice) al burkini, e più in generale la modest fashion, la moda pudica che rispetta il dress code islamico, merita la prima esposizione museale su scala globale, intitolata Contemporary Muslim Fashions, fino al 6 gennaio al museo de Young di San Francisco (poi a Francoforte e negli Emirati Arabi). È curata da Jill D’Alessandro e Laura Camerlengo, con la consulenza della docente Reina Lewis, che spiega: «La mostra è frutto di un dialogo di due anni con stilisti e comunità musulmane. Parliamo di mode al plurale perché variano a seconda di nazioni, regioni, individui. Esiste un solo Islam ma tanti musulmani. C’è chi si copre per scelta religiosa o spirituale, per imposizione, per protesta. C’è chi lo fa solo in certi luoghi e in certi periodi. Noi non stabiliamo se sia giusto o sbagliato, mostriamo le splendide creazioni artistiche raccolte a ogni latitudine, preferendo le sfumature alle generalizzazioni».
LE DIFFERENZE
In effetti, messe a confronto, le opere tessili restituiscono differenze sartoriali, di gusto, di utilizzo: più delicati e sobri gli outfit del Medio Oriente (tra i designer presenti Chador e Fyunka), complessi e lussuosi quelli del sudest asiatico (Itang Yunasz e Bernard Chandran), con capi personalizzati per il Ramadan, più aggiornati nei codici quelli realizzati da musulmani trasferiti negli Usa e nel Regno Unito, come la greca Mary Katrantzou. Le pareti delle prime sale del De Young sono nere, impenetrabili, quelle finali invece sono trasparenti, a indicare un percorso di conoscenza del visitatore.
L’evoluzione dei costumi e dei significati passa anche attraverso le foto, dai cortei femminili contro l’imposizione del velo in Iran nel 1979 al poster antiTrumpista We The People dell’artista Shepard Fairey. Di mezzo c’è stato l’11 settembre e il lungo periodo in cui l’industria della moda ha cercato di non essere associata alle possibili terroriste e le giovani musulmane, chiamate a rispondere sul senso del velo, ne hanno fatto una bandiera, se ne sono riappropriate come le afroamericane hanno fatto con i ricci. Ignorate da riviste e passerelle, sono state rappresentate dai social media, l’e-commerce ha sdoganato stilisti locali e mostrato che lo stile casto non è noioso. Anzi, può essere cool, come dimostrano le hijabber urbane fotografate per le vie di Londra dall’italiana Alessia Gammarota o le dinamiche motocicliste di Marrakesh immortalate da Hassan Hajjaj.
LA GLOBALIZZAZIONE
Testimonial della mostra è Halima Aden, la ventenne somala che per prima ha sfilato in hijab sulle passerelle internazionali, e un’intera ala è dedicata alla blogosfera, tra le influencer Dian Pelangi (Indonesia, 4,8 milioni di follower su Instagram) e Melinda Looi (Malesia), le attiviste e femministe Joo Joo Azad e Leah Vernon. Stanno cambiando loro le carte in tavola, a una condizione: indossare il velo è una scelta e non indossarlo non significa essere meno credenti. Se per le madri la modestia era un antidoto al consumismo occidentale, per loro, cresciute nel mondo globalizzato, è un modo per affermarsi. Moda e fede non sono in contraddizione ma complementari. Il giro del mondo casto è dunque in 80 abiti, sportivi (il primo hijab della Nike e i burkini di Aheda Zanetti) o di alta moda, firmati Jean Paul Gaultier, Pierpaolo Piccioli per Valentino, Oscar de la Renta, Dolce & Gabbana, Faiza Bouguessa, ma soprattutto indossati da vivaci millennial.
Una nicchia che è ormai forza economica con cui fare i conti: il mercato della modest fashion nel 2021 salirà a 314 miliardi di euro l’anno (ora è di 44 miliardi). Su Google la ricerca modest styling dà oltre 30 milioni di risultati e attrae anche non musulmane, clienti plus-size o più anziane, che vogliono essere stilose ma appropriate. Visto il trend, gli stilisti occidentali producono collezioni più coprenti, Torino ha una specifica fashion week e Milano in parte si è accodata. Ciò che prima induceva panico morale, oggi si monetizza. La domanda è: le non musulmane saranno altrettanto libere di indossare un hijab come accessorio trendy o verranno accusate di appropriazione culturale?