La Stampa, 27 settembre 2018
Alfredo Frassati, centocinquant’anni fa nasceva il fondatore della Stampa
Una moderna vita d’eroe attendeva Alfredo Frassati, nato a Pollone il 28 settembre 1868: avvocato, giornalista, editore, fondatore e direttore della Stampa, padre di un santo e di una scrittrice, senatore, ambasciatore, amico di Giolitti, nemico di Mussolini, membro dell’Assemblea Costituente, salvatore dell’Italgas. Vita di idee, di orizzonti, di battaglie, di vittorie, di sconfitte, anche di lacrime.
Fatta l’Italia bisognava fare gli italiani e i giornali avrebbero dato una mano. Frassati lo intuì quando era ancora un vulcanico giovanotto bello, occhi bruni, volto imperioso, appassionato di montagna, di cavalli e di belle donne. La Stampa fu il suo capolavoro. Studente di legge in Germania, a ventitré anni cominciò a inviare corrispondenze alla Gazzetta Piemontese di Vittorio Bersezio, il commediografo delle Miserie d’monsù Travet.
In redazione
In tre anni divenne comproprietario e condirettore della testata. Nel 1895 le cambiò i connotati e il nome, facendone un grande giornale politico, tecnicamente all’avanguardia, approdo e vivaio di firme illustri: Guido Gozzano in cronaca, Luigi Einaudi principiante all’economia, tra gli inviati e i critici Ernesto Regazzoni, Arrigo Cajumi, Francesco Pastonchi, Giuseppe Antonio Borgese, Edoardo Scarfoglio. Un quotidiano nazionale dai ferrei princìpi di «un giornalismo moderno, indipendente da tutti, onestissimo nel più rigido e assoluto senso della parola», come scrisse ad Alberto Bergamini, fondatore del Giornale d’Italia.
La persecuzione
Si prese subito la scena. Liberale ma simpatizzante per i socialisti, attento all’economia e allo sviluppo dell’industria, ma pure alle questioni sociali e ai diritti dei lavoratori, Frassati fu il primo giornalista a diventare senatore. Inviato da Giolitti ambasciatore a Berlino, quando il Duce agguantò il potere si dimise e tornò in redazione. Con lo stessa determinazione con la quale si era opposto all’intervento italiano nella guerra 1914-18, si lanciò contro la sgangherata impresa di D’Annunzio a Fiume. Fu antifascista in pieno fascismo, tra minacce e irruzioni squadriste in casa e al giornale. Come Zola per l’«affare Dreyfus», Frassati gridò il suo «atto d’accusa» al regime, smascherato mandante dell’assassinio di Matteotti. Pagò con una serrata che fermò il quotidiano quaranta giorni. Poi lo perse del tutto, scacciato dalla direzione e dalla proprietà poco dopo la morte del figlio Pier Giorgio: ventiquattro anni, poliomielite fulminante.
Combattè la disperazione lavorando. Agricoltore a Pollone, fece piantare centomila alberi sulle montagne biellesi. Presidente dell’Italgas, pilotò l’azienda a risorgere da un drammatico fallimento. Membro dell’Assemblea Costituente, superati i novanta continuava a scrivere articoli di memorie politiche. Morì all’improvviso il 21 maggio 1961, senza poter immaginare che per tanti gesti di fede e di carità il suo Pier Giorgio fosse venerato dal prete polacco Karol Wojtyla e che questi, diventato papa, l’avrebbe eletto tra i beati e avviato a essere il primo santo della Torino laica. E senza immaginare che la figlia Luciana gli avrebbe dedicato un monumento di carta: Un uomo, un giornale.
Due figli speciali
Laureata in legge a ventun anni, a ventitré sposa di Jan Gawronski, l’ultimo ambasciatore polacco a Vienna prima dell’invasione nazista, eroina della resistenza in Polonia, Luciana Frassati tra il 1978 e il 1982 pubblicò sei volumi sulla tumultuosa e drammatica vicenda umana, professionale e politica del padre.
Modi rapidi, talvolta bruschi, di un caratteraccio ammesso e sofferto, fu con gli amici-rivali Alberto Bergamini e Luigi Albertini un pioniere italiano del moderno giornalismo. Per alcuni aspetti più completo di loro: direttore teso all’alta qualità del quotidiano, ma anche imprenditore attento alla salute del suo bilancio; pronto a cogliere le novità tecnologiche, mai però distratto nella «difesa della dignità del giornalismo e del suo onore», per la quale il 23 aprile 1899 proprio lui, giornalista ed editore, aveva fondato a Torino l’Associazione Stampa Subalpina.
Un’«ambizione senza freni, ma forte, sana e onesta, insofferente d’ogni viltà, schiva d’ogni compromesso» portò Frassati vicino a cariche nazionali e lo indusse a pronte rinunce. Ma al giornalismo non rinunciò mai. Come Gobetti, come Gramsci – sebbene culturalmente diverso da loro – lo guidava un’idea dell’informazione come pubblico servizio ed essenziale ingrediente della democrazia. Un’idea che bandiva il dilettantismo, che pretendeva professionalità, affidabilità, responsabilità, rigore morale: quel «frangar, non flectar» che La Stampa portò a lungo sotto la sua testata. Un’idea dell’informazione sulla quale è urgente tornare a ragionare.
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