la Repubblica, 27 settembre 2018
Cesare Giaccone, il cuoco che ha fatto Alte le Langhe
Un solo cuoco al comando della cucina langarola: il suo nome è Cesare Giaccone. Affermarlo oggi, con le tre stelle di Enrico Crippa che brillano sul campanile del duomo di Alba e tutte le altre felicemente sparse tra le colline di Fenoglio e Pavese, può suonare vagamente retrò. Eppure, nulla di tutto quanto è stato costruito qui negli ultimi quarant’anni – fino all’inclusione nel virtuosissimo elenco dei patrimoni protetti dall’Unesco – avrebbe lo stesso senso senza Cesare- di- Albaretto- Torre. Nome e provenienza vanno pronunciati tutti di un fiato, in quanto complementari e indivisibili, come lui stesso ama ripetere: «Mi hanno cresciuto le Alte Langhe. I pascoli di collina sono stati la mia aula, i boschi le pareti, mucche e pecore i compagni, e come sfondo la profondità e la maestosità oltre la finestra. Quando ripenso alla scuola del pascolo, i ricordi sono da pelle d’oca». Difficile trovare un miglior esempio del concetto di identità. Giaccone è nato in un francobollo di Langa arrampicato una ventina di tornanti sopra Alba, meno di trecento anime e una torre d’avvistamento rimasta a vegliare dai tempi in cui i Saraceni varcavano i monti che separano dalla Liguria per accaparrarsi vini e vitelli già allora piuttosto apprezzati. E come tanti langhetti, ha con la sua terra un rapporto quanto meno ambivalente. Così semplice, oggi, raccontare bellezza e opulenza dei cru che si inseguono da un crinale all’altro. Ma quando Giaccone, settantadue anni a fine novembre, era alto come un soldo di calcio, in Langa si faceva la fame e il Barolo era l’evoluzione obbligata di un vino che bevuto giovane entrava in bocca con i gomiti larghi e aguzzi. Era il tempo in cui i ragazzi sconfinavano per cercare un futuro migliore, e a volte quando tornavano in estate portavano a casa” le francesine” a conoscere i futuri suoceri, invidiati da chi era rimasto a masticare la terra di casa. Cesare- di- Albaretto non si è sottratto al destino dei suoi conterranei, allungando semplicemente la traiettoria del viaggio dopo molto girare per l’Italia, migrante in America con la benedizione di un magnifico talento culinario. E quando nel 1981 è tornato davvero a casa, mettendo finalmente in bolla i punti cardinali della sua vita – tavola, pittura, donne e Langa – il successo era lì, che lo aspettava a braccia aperte. Da allora, pur con alcune intermittenze lavorative e sentimentali non di poco conto, la sua fama si è consolidata fino a sfiorare la categoria del mito. Perché il sogno di una cena nella nebbia di Albaretto ha accompagnato chiunque abbia varcato i confini gastronomici del Piemonte dagli anni ’ 80 in poi, in un rincorrersi di appuntamenti semi-clandestini, camere prenotate per evitare lo strazio della guida alcol-zero al rientro, la giusta compagnia per una serata da condividere con chi lo merita davvero. Certo, l’archetipo del capretto allo spiedo – il migliore del pianeta, senza se e senza ma —, i plin nel brodo di bue (e cognac), i grandi vecchi nel bicchiere, uno zabajone da perdere la testa. Ma anche e soprattutto un’atmosfera calda&colta quasi suo malgrado, la ruvidezza affettuosa di un padrone di casa che dipinge come cucina, attingendo a forme, colori e sapori in modo solo apparentemente naïf. Un solipsista della cucina, che gli appartiene fino al midollo, anche a costo di usare la cartavetro nelle relazioni esterne. Pronto a mettere le mani avanti perfino quando gli venne assegnata la stella Michelin, e lui, invece di brindare e godersela, affisse alla porta del ristorante un cartello con su scritto: «Se siete qui soltanto perché avete letto il mio nome sulla Michelin o sulla Veronelli, per favore non entrate». Toccò alla moglie Silvana, con uno stoico esercizio di pazienza, convincerlo a farne a meno.