la Repubblica, 27 settembre 2018
Così il caos divenne scienza esatta
Grande è il disordine sotto il cielo, eppure oggi sembra prevalere l’idea che sia possibile semplificare i problemi per risolverli. Nell’economia, nella scienza, nell’arte, nella letteratura, e soprattutto nella società e nella politica, le formule semplici, che cercano di ridurre le questioni, sembrano dominare.
Più aumenta il caos e più questa tendenza prende piede. Nel 1984 un gruppo di studiosi americani di varie discipline scientifiche pensò bene di dare vita a un’istituzione che studiasse proprio la complessità. Non era ancora caduto il Muro di Berlino, il terrorismo non era diventato un fenomeno planetario, la finanza internazionale non era andata in crisi, eppure molti segnali indicavano che il pianeta era attraversato da fenomeni complessi e imprevedibili. Nel 1972 un matematico, che si era dedicato alla meteorologia, Edward Lorenz, formulò la teoria del cosiddetto “effetto farfalla”, da lui delineato nel 1962. In una conferenza si chiese: «Può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?». La risposta era: sì. Era nata ufficialmente la “teoria del caos”. A Santa Fe, nel New Mexico, alcuni studiosi di fisica decisero perciò a metà degli anni Ottanta di mettere in piedi un’istituzione che radunasse ricercatori di differenti discipline per uno studio del caos.
Sembrava loro che nessuna disciplina potesse da sola risolvere le grandi questioni in campo e che fosse necessario incrociare i diversi ambiti di studio: matematica, economia, biologia, fisica, statistica. L’idea venne a George Cowan, chimico sessantasettenne. Era stato uno degli scienziati che avevano partecipato al progetto nucleare.
Convinto che nelle università americane non vi fosse il clima giusto per una ricerca interdisciplinare, era giunto alla conclusione di fondare un apposito istituto non profit. Perciò decise di parlarne con due consulenti scientifici della Casa Bianca, tra cui David Packard, fondatore della Hewlett-Packard.
Saranno scettici, si dice; invece lo incoraggiano a proseguire.Coinvolge tre premi Nobel per la fisica e l’economia: Murray Gell-Mann, Philip Anderson e Kennet Arrow e in un ex convento di Santa Fe installa il primo gruppo di lavoro: un istituto senza docenti fissi, che organizza seminari e incontri, permanenze di lavoro per scienziati. Servono i soldi per farlo e uno dei partecipanti ne parla con il capo della Citicorp, la banca americana, e lo convince che forse lì si possono studiare modelli economici non tradizionali per capire i mercati finanziari. I soldi, 120.000 dollari, arrivano a una condizione: fare qualsiasi cosa purché non sia convenzionale. La storia del Santa Fe Institut è stata raccontata da Morris Mitchell Waldrop, fisico di formazione e giornalista scientifico di professione, in un libro mai più ristampato: Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos (traduzione di Libero Sosio) edito nel 1996 da Instar Libri, che nel 2002 pubblicò poi anche Simmetrie. Scienza, fede e ricerca dell’ordine di George Johnson, sempre sulla medesima avventura. Waldrop narra la storia delle anime solitarie che hanno incrociato menti bizzarre e idee strane, percorsi tra ricerche, passioni e incontri. Ne esce un profilo affascinante di scienziati e studiosi originali, eccentrici, poco prevedibili, che hanno fornito un contributo importante al cambiamento del paradigma dominante della scienza classica.
Per quanto siano trascorsi parecchi decenni da allora, la nascita del Santa Fe Institute rappresenta una vicenda paradigmatica di come la scienza sia l’effetto di continui scambi di idee al di fuori degli ambiti disciplinari dei singoli scienziati, perché la complessità è diventata la condizione preponderante del mondo contemporaneo.
Il libro, che sarebbe bello veder ristampato per il suo andamento narrativo, è fondato su interviste e conversazioni con i protagonisti di quell’avventura. Racconta la storia di Brian Arthur, un giovane matematico che si occupava di “rendimenti crescenti”, ovvero di come si affermano tecnologie, o si aggregano aziende in una medesima zona, smentendo le teorie neoclassiche del mercato libero. Oppure quella di John H.
Holland, studioso di “sistemi complessi adattivi” che arriva a Santa Fe dopo decenni di ricerche e scopre a cinquantasette anni compiuti che i suoi studi non sono così marginali o strani come credeva. C’è poi la vicenda di un altro eccentrico, Chris Langton, ex hippy, appassionato di alianti, precipitato disastrosamente durante un volo, che dopo anni nel New Mexico non ha ancora completato la sua tesi di Post-Doc tutto preso com’è dall’organizzare convegni e compiere le sue solitarie ricerche sulla “vita artificiale”. Mago del computer – molti dei membri giovani dell’Institute sono degli autodidatti in questo – è arrivato, senza una vera carriera accademica a formulare ambiti di ricerca tra biologia e computer grazie al sostegno dei colleghi di Santa Fe. Gli elaboratori elettronici sono lo strumento che consente ricerche e modellizzazioni in precedenza impossibili. La cosa interessante che Waldrop racconta è che la scienza, sia del passato come del presente, funziona in base alle metafore, e che queste si modificano. Quella della fisica newtoniana era fondata sull’immagine dell’orologio: semplice, regolare, intuibile, autonomo: così ancora l’economia classica della “Mano invisibile”.
Poi con l’inizio del XX secolo Russell, Whitehead, Frege, Wittgenstein misero mano a un’immagine diversa della scienza; Gödel mise in luce l’incompletezza dei sistemi matematici e Turing diede un altro scossone all’idea della decidibilità delle nostre operazioni. Nel 1989 il Muro di Berlino crollò; nel 2008 la Lehman Brothers fece fallimento; nel 2018 a Santa Fe hanno organizzato un seminario: After Trump and Brexit: A New Economics.