Sarà anche per questo che la sua bibliografia ormai ha sfondato quota 150 pubblicazioni e lei continua a girare il mondo per conferenze e dibattiti.
«E questo la stupisce così tanto? C’è sempre tanto lavoro appassionante da fare nei campi intellettuali che più mi interessano. Non si può indugiare sui problemi urgenti che l’umanità deve fronteggiare in questi tempi inquietanti, ma anche promettenti».
Noam Chomsky non cambia e soprattutto non molla mai. Il "padre della linguistica moderna", sociologo, scienziato cognitivista, storico, filosofo, attivista-guru di vecchi e giovani, risponde dal Sudamerica, dove è stato in questi giorni per un tour di conferenze. In Italia, nel frattempo, è arrivata la sua ultima opera Il mistero del linguaggio. Nuove prospettive
(Raffaello Cortina), che raccoglie suoi scritti e discorsi inediti, tenuti anche nel nostro Paese.
Chomsky, quali sono le prospettive del linguaggio politico oggi, tra social media, populisti e nuove forme di propaganda?
«C’è stata una volgarizzazione da parte dei demagoghi che sperano di ottenere consenso agitando paure, risentimento, rabbia. Da queste torsioni del linguaggio nascono il rifiuto dei fatti, della verità, della conoscenza e della scienza. È il turno della "falsa realtà", per dirla alla Jared Kushner, il genero di Donald Trump. Il concetto di verità è sempre stato messo in pericolo, soprattutto dai regimi totalitari, le cui pratiche a volte vengono ripetute in quest’epoca dove le istituzioni politiche tradizionali paiono sull’orlo del collasso».
Sul demagogo Trump si è detto di tutto: da "stupido e distratto" a essenziale campione della comunicazione.
«Trump è un politico molto efficace, che gioca su due tavoli di elettorato: da una parte le grandi aziende e i super ricchi, dall’altra il "popolo" che lui dice di difendere.
Le sue buffonate sono perfette per tenersi stretto il secondo elettorato (vedi i proclami contro le élite), ma le sue politiche economiche favoriscono evidentemente i paperoni. Finora, da questo punto di vista, la sua propaganda ha raggiunto risultati di cui ogni demagogo dovrebbe essere fiero».
Tra un po’ nel suo Paese si vota per le elezioni di medio termine.
«Saranno decisive per gli Stati Uniti. I repubblicani vogliono imporre sempre più il loro capitalismo selvaggio, maciullare il poco welfare rimasto e lanciare l’assalto finale all’ambiente. E poi c’è il pericolo della guerra nucleare. Se i repubblicani riescono a conservare la maggioranza al Congresso, subiremo tutti catastrofiche conseguenze».
Intanto le destre populiste e xenofobe avanzano ovunque.
«Non siamo tornati all’epoca pre-fascista degli anni Trenta, ma quel che sta accadendo è terribile.
Bisogna riformare l’ordine sociale con equità e giustizia, sulla base dell’analisi razionale , tutte cose minacciate da queste pericolose entità politiche».
I movimenti di destra radicale hanno lanciato da anni una crociata contro il "politicamente corretto", da loro considerato un ostacolo alla libertà di espressione.
«Non cadiamo in questa truffa! Non nego che a volte il politically correct sia esagerato, ma chi lo accusa molto spesso lo fa perché deve coprire i suoi istinti razzisti, sessisti e patologie simili».
In ogni caso, i linguaggi xenofobi e offensivi di alcuni politici sembrano sdoganare e legittimare atteggiamenti sempre più apertamente razzisti che, in alcuni casi, possono sfociare anche in aggressioni fisiche, come contro i migranti.
«Il fenomeno è reale, ma non lo confinerei su un piano linguistico. I programmi neoliberali della generazione precedente hanno aumentato le disuguaglianze a favore dei più ricchi. Lo ha scritto anche l’economista francese Thomas Piketty: "Una società che non riesce a generare crescita per più della metà della sua popolazione, e per un’intera generazione, è destinata a provocare insoddisfazione verso lo status quo e il rifiuto dell’establishment politico. Questo ha comportato un declino nel funzionamento della democrazia.
In più c’è stato un sostanziale aumento di tutte quelle entità rapaci e improduttive legate alla finanza globale. I demagoghi hanno avuto vita facile a prendere le parti degli "esclusi", dei "dimenticati", individuando allo stesso tempo capri espiatori come i migranti. Ma le armi per combattere questa deriva non possono essere linguistiche.
Bisogna cambiare le politiche socioeconomiche neoliberiste del secolo scorso, che sono alla base di questa rabbia».
La sinistra, sempre più in affanno in Occidente, che ruolo può avere in tutto questo?
«L’establishment politico centrista spesso chiamato "sinistra" (come i democratici Usa, i Labour in Regno Unito, i socialdemocratici in Europa) si è piegato all’ordine neoliberale voluto dalla destra e delle elite del secolo scorso. Quello di cui ha bisogno adesso la sinistra sono nuove forze politiche e sociali per combattere questo status quo ingiusto. Bisogna ripartire dai Sanders, dai Corbyn e gli altri: adesso sono molto più organizzati che in passato».
Lei si è spesso definito anarchico. Lo è ancora a quasi 90 anni?
«Credo che la gerarchia e il dominio non si giustifichino da soli. E quando non riescono ad avere una giustificazione dovrebbero essere smantellati in favore di una società più equa e giusta: è il principio fondamentale del pensiero anarchico».
Una delle sue opere più famose è la "The Responsibility of intellectuals". Oggi spesso gli intellettuali sono considerati indifferenti verso questa attuale metamorfosi sociale e politica dell’Occidente. È d’accordo?
«Non credo che in passato le cose fossero molto diverse da oggi. Gli intellettuali scrivono la storia, perciò spesso sembrano avere un ruolo nobile. Ma la realtà è diversa.
Il termine intellettuale come lo conosciamo oggi cominciò a diffondersi durante il processo Dreyfus. Oggi i difensori di Dreyfus contro nazionalisti, clericali e antisemiti sono considerati uomini d’onore ma all’epoca vennero messi all’indice dall’establishment intellettuale perché rappresentavano una minaccia per " la grande istituzione Francia". Difatti Émile Zola venne costretto a lasciare il Paese. Questo è uno schema che da allora si è spesso ripetuto, anche durante la Guerra del Vietnam nei confronti di quei pochi dissidenti che chiedevano conto alle autorità. Un modello che persiste ancora oggi. E le eccezioni sono rare».