il Fatto Quotidiano, 26 settembre 2018
Non tutti sono Nadia Toffa quando lottano col cancro
Il 2 dicembre dello scorso anno, Nadia Toffa è caduta per terra, in un hotel a Trieste. Da quel momento, nella sua vita, sono accadute molte cose. Il silenzio sulla sua malattia, durato settimane. L’affetto della gente, la preoccupazione. Una prima intervista alle Iene. Poi il suo ritorno al timone del programma con una parrucca bionda e le rassicurazioni al suo pubblico: “Ho avuto il cancro, mi sono curata, sono guarita!”. Le prime critiche, perché il messaggio era ambiguo, poco credibile. Non si fa la chemio e si guarisce in due mesi scarsi.
Dopo qualche puntata, arrivarono le parole del co-conduttore Nicola Savino: “Nadia stasera non sarà alle Iene, deve riposare”. E allora tutti compresero che no, non era stato tutto facile come aveva raccontato. Del resto, mentì anche la giornalista e scrittrice Wondy-Francesca Del Rosso quando, anni prima, andò da Daria Bignardi alle Invasioni barbariche e disse che stava bene pure se aveva appena scoperto una recidiva giorni prima. Tantissima gente malata mente per meccanismi che possono avere a che fare con la negazione, con il pudore, con la preoccupazione per gli altri, con la vergogna e perfino con l’ottimismo.
Nadia prolungò il riposo, fino alla fine del programma. Poi una lunga assenza dai social network, e infine il ritorno con i suoi turbanti colorati, i messaggi positivi, le foto con la famiglia e il volto stanco.
Da qualche giorno, Nadia è al centro di polemiche furiose sui social e fuori dai social perché ha annunciato l’uscita del suo nuovo libro, Fiorire d’inverno, in cui racconta la sua malattia. Quello che ha generato la valanga di discussioni è il fatto che abbia annunciato la cosa scrivendo: “In questo libro vi spiego come sono riuscita a trasformare quello che tutti considerano una sfiga, il cancro, in un dono”. Per poi aggiungere altre frasi quali: “Ogni tumore è uguale, stesse difficoltà”, “Insegnare alle persone a trasformare il cancro in un dono è il mio obiettivo” e così via.
Malati, familiari di malati, gente che ha vissuto lutti per colpa del cancro ha espresso il suo disappunto per quella che ha ritenuto la banale semplificazione di un dramma. In molti hanno insultato la Toffa, sono usciti articoli violenti sui giornali, la Toffa stessa si è difesa alzando i toni, comprensibilmente irritata dall’aggressività di alcuni maestri di vita.
Intanto, va detto, che Nadia non è la prima ad aver parlato della malattia come di un’opportunità. Esiste una vastissima letteratura sul tema, capirai che novità. Il giornalista Tiziano Terzani, intervistato mentre era malato, disse: “Per me il cancro è stato una benedizione, perché ero ricaduto nella routine della vita e questo cancro mi ha salvato. Il cancro è diventato una sorta di scudo, di divisione tra me e il mondo da cui volevo staccarmi”.
Immaginate se avesse parlato così con i social sull’attenti come oggi. Probabilmente, la lettura dei commenti, gli avrebbe tolto qualche ulteriore giorno di vita. Questo per dire che la rabbia o l’ilarità sguaiata che ha provocato la frase “Ho trasformato il cancro in un dono” sono crudeli e ingiuste. La Toffa non intendeva dire che il cancro sia una botta di culo, ma che lei ne ha tratto degli insegnamenti. Che probabilmente ha riscritto le sue priorità, che ha imparato a vivere con intensità e gratitudine ogni attimo della sua vita.
La debolezza nel messaggio di Nadia – e tento di non essere giudicante, perché noi sani vediamo le cose da una posizione privilegiata – sta nel fatto che lei ritenga la sua esperienza replicabile e comune. Quando scrive che “ogni tumore è uguale, ha le stesse difficoltà” per poi rettificare che la paura è la stessa, non le patologie, dimentica che la malattia è un’esperienza comune, ma che l’elaborazione della malattia è un percorso individuale. Per lei, è un dono. Per lei la sfiga è diventata opportunità. Per lei la paura è la stessa per tutti.
La realtà della malattia però, contiene più sfumature. Proprio perché non tutti i tumori sono gli stessi, anche la paura e l’angoscia sono proporzionate alla gravità, alla diagnosi, alle aspettative di vita e di guarigione. All’età, all’indole, assieme poi alle possibilità economiche e a un sacco di altre variabili, che possono alleviare la pena di attese, burocrazia, preoccupazioni pratiche. Proprio perché la malattia è un percorso intimo e personale, non è detto che diventi arricchimento spirituale. C’è chi vive solo dolore, angoscia, abbrutimento.
Sono belli i messaggi di positività che lancia Nadia. Però la narrazione non può essere solo questo. Manca un pezzo. È un po’ come la copertina del libro. Bellissima, nella prima di copertina, Nadia che sorride. Però chi ha il cancro sa che la quarta di copertina è un’altra storia. È il volto segnato, le occhiaie, la testa pelata. Insomma, alla fine dei conti, quando si sceglie di condividere un’esperienza come la malattia, è importante che lo si faccia consapevoli del fatto che quello che vale per te, non vale per tutti. Per Oriana Fallaci il cancro era un alieno, per Terzani una benedizione, per Wondy è stato fonte di ironia e a tratti disperazione, Irene Bignardi ha detto che è una cosa comune e parlare della malattia da cui è guarita non le interessa, e così via.
Ecco, forse a Nadia suggerirei solo questo. Di pensare bene a quanta responsabilità si ha quando si scrive di un cancro. Anche fosse solo quella di confrontarsi col dolore e la sensibilità altrui. Per il resto, sosteniamola e cerchiamo di essere critici con gentilezza, perché ne ha bisogno lei, ne abbiamo bisogno tutti, quando si parla di cose che hanno a che fare con la vita e la malattia.