il Fatto Quotidiano, 26 settembre 2018
Ritratto di Alberto Matano, il mezzobusto che piace a tutti
Alberto Matano piace perché si piace e pure perché ci crede: “Ho fatto tutti gli scalini e mi sono sudato tutto da vent’anni a questa parte, quindi non è arrivato niente all’improvviso, ma per gradi”, ha detto un paio di mesi fa, già in perenne ascesa nel totonomine di Viale Mazzini – stavolta per il Tg1 – tra la conduzione serale del telegiornale di Rai1, un programma su Rai3 inventato con Daria Bignardi, un libro tratto dal programma, un successo mediatico tratto dal libro e dal programma di scarso successo (il docu-drama Sono innocente – campionario di errori giudiziari – ha registrato una media del 4,4 per cento in prima serata).
All’improvviso il giovane Matano – classe ’72 di Catanzaro, studi in Giurisprudenza, collaboratore del quotidiano dei vescovi Avvenire, scuola di giornalismo di Perugia, un periodo di rodaggio al radiogiornale del servizio pubblico – viene chiamato al Tg1 da Gianni Riotta nel 2007, durante la transizione che va dal claudicante governo di Romano Prodi all’imminente ritorno di Silvio Berlusconi e del centrodestra senza il solista Pier Ferdinando Casini. Matano sostiene che il destino un po’ sussiste e un po’ va alimentato.
Il destino di Matano – chissà se in senso biblico, cioè coincidente con la volontà divina – si compie con Casini, all’epoca politico influente anche in Viale Mazzini e non semplice senatore ramingo. Il destino, per lunghi anni, ha officiato la permanenza nel medesimo partito – l’Unione democratici cristiani e derivati – di Casini e di Maria Teresa Fagà, detta Marisa, mamma di Alberto, ex responsabile nazionale per le pari opportunità dell’Udc; ex capo di Arcapal, l’agenzia calabrese per l’ambiente e di Ande, l’associazione nazionale donne elettrici. Alberto è accolto dai colleghi del Tg1 con l’etichetta di “casiniano”, categoria consunta dal tempo, ma che la memoria – e la malizia – di chi frequenta Saxa Rubra rievoca per rallentare la placida camminata – no, non è una corsa – verso la guida del Tg1 su spinta di Vincenzo Spadafora, sottosegretario a Palazzo Chigi, che vigila su Viale Mazzini su mandato del vicepremier Luigi Di Maio e perciò dei Cinque Stelle.
Matano incarna lo spirito democristiano, che poi è un primordiale istinto di sopravvivenza: molti amici, molto onore. Ingresso al Tg1 con Casini, lenta conversione al renzismo e scoperta del Movimento tramite Spadafora. Matano sta bene ovunque. Va d’accordo con Mario Orfeo, con Campo Dall’Orto, con la Bignardi. Un giorno sindacalista, un giorno mondano. Un giorno membro del comitato di redazione del Tg1, un giorno presentatore del premio Biagio Agnes da Sorrento, simulacro del potere Rai. Un giorno con Maria Elena Boschi per celebrare l’uscita del suo saggio Innocenti sulle ingiustizie della giustizia e un giorno con i poco garantisti dei Cinque Stelle. Molti Matano per una qualità: funziona in diretta, buca lo schermo, in versione mezzobusto al Tg1 o conduttore estivo di Unomattina. Scalate le gerarchie del Tg1, Matano è travolto dalla popolarità nel 2013 con i collegamenti dal Festival di Sanremo e i rapidi duetti con Luciana Littizzetto: “Ma che figo che c’è al telegiornale. Avete fatto fuori Giorgino?”.
“Il gran tronco di pino” (citazione) poi va a consegnare un mazzo di fiori a Littizzetto a Che tempo che fa, introdotto da Maria De Filippi, sotto lo sguardo commosso di mamma Marisa in platea. Il caposervizio agli interni Matano assume così le sembianze del giornalista istituzionale. Quello che racconta con voce sottile il giuramento del presidente della Repubblica o dei governi d’Italia o illustra gli speciali sugli eventi mondiali.
Viale Mazzini l’ha costruito per diventare l’anti-Vespa. Vuoi la caratura differente, vuoi il destino – quel destino – beffardo, ma il vecchio Vespa è ancora imbattibile e Matano è inciampato nella notte del golpe in Turchia, quando l’imprevedibile cronaca gli ha cambiato il copione e confuso i testi.
Matano non è un esperto gestore di un telegiornale, neanche di un’edizione notturna – non s’è mai cimentato – però è un maestro nell’assecondare il destino: “Ciò che conta – ha risposto sul tema a Io Donna – è essere consapevoli e sintonizzati con se stessi per non vivere vite che non ci appartengono”. Alberto lo sa, il destino l’ha scelto. Che si chiami Casini o Spadafora, non importa.