25 settembre 2018
La vendita di Versace a Kors
APPUNTI PER OGGI SULLA VENDITA DI VERSACE
CARLO FESTA PER IL SOLE 24 OREMILANO
Il gruppo americano Michael Kors rileva Versace mettendo sul piatto una valutazione di circa 2 miliardi di dollari. Arriva così a conclusione il riassetto del gruppo della Medusa, sul quale circolavano indiscrezioni di vendita dall’estate. La valutazione di 2 miliardi ha fatto la differenza: Michael Kors ha accettato di pagare la cifra più elevata battendo gli altri gruppi strategici che stavano guardando il dossier (come l’americana Tapestry, che possiede marchi Coach, Kate Spade e Stuart Weitzman) e chi come la francese Kering ha invece trattato a lungo senza successo.
Proprio il colosso transalpino sarebbe arrivato a offrire una cifra ben inferiore (superiore al miliardo di euro). I desiderata della famiglia Versace erano altri: quei 2 miliardi che ora sarebbero stati assecondati dallo stilista statunitense Micheal Kors (assistito da Barclays), che non ha badato quindi a spese. Del resto, tutto il settore italiano del lusso e della moda sembra pronto a un riassetto: una rivoluzione in cui le famiglie proprietarie sembrano pronte a lasciare il campo a nuovi investitori sull’altare della globalizzazione. Continuano da mesi, anche se la famiglia ha sempre smentito, le indiscrezioni sulla cessione di Ferragamo a fondi di private equity, mentre la maison Trussardi, controllata dalla famiglia e guidata da Tomaso Trussardi, è vicina alla vendita al fondo di turnaround della Cdp, cioè Quattro R.
Tornando a Versace, la valuzione di 2 miliardi di dollari implica multipli stellari. Versace è una maison globale, con un marchio conosciuto in tutto il mondo e forti possibilità di sviluppo sul mercato americano: ma il gruppo esce da una fase di ristrutturazione e ha rivisto l’utile (15 milioni rispetto alla perdita di 7,4 milioni del 2016) soltanto nell’ultimo esercizio. Inoltre Michael Kors, secondo i rumors, dovrebbe finanziare con debito bancario una bella fetta dell’acquisizione, tanto che a Wall Street il titolo è sceso ieri del 7 per cento. Alcuni membri della famiglia Versace, che oggi possiede l’80% tramite la holding Givi, dovrebbero restare soci della nuova compagine azionaria: sicuramente Donatella Versace, mentre il private equity Blackstone cederà il suo 20%, acquisito nel 2014 per 210 milioni di euro, con cospicua plusvalenza. Come mai Versace ha deciso di vendere? Il gruppo della Medusa è arrivato al termine di un processo di ristrutturazione durato anni e Blackstone ha supportato la maison in questo passaggio aziendale.
Ora è necessaria una nuova fase fatta di grandi investimenti e sinergie internazionali: una fase che poteva essere realizzata solo all’interno di un grande gruppo internazionale quotato. Se poi Michael Kors sia la scelta giusta (rispetto a Kering, che ha in portafoglio, tra gli altri, Gucci e Bottega Veneta) lo dirà il futuro, sicuramente ha offerto il prezzo più alto. I dettagli dell’accordo saranno definiti in questi giorni (al lavoro sono i banchieri di Goldman Sachs e gli studi legali Cleary Gottlieb, Chiomenti, Gianni Origoni Grippo Cappelli e Orsingher Ortu), mentre l’annuncio ai dipendenti dovrebbe essere dato oggi.
GIULIA CRIVELLI SUL SOLE 24 ORELa storia della maison Versace inizia nel 1978, quando i fratelli Gianni e Santo uniscono i rispettivi talenti – creativo il primo, manageriale il secondo – per dare vita a un marchio e a un’azienda. La prima collezione sfila a Milano e dopo appena un anno a fotografare le creazioni di Gianni Versace è Richard Avedon, uno dei più famosi fotografi di moda dell’epoca e di tutti i tempi. Un primo successo dei due fratelli arrivati a Milano da Reggio Calabria che dà l’idea del magnetismo del talento di Gianni Versace. Dopo pochi anni viene coinvolta Donatella, sorella di nove anni più giovane e con un’anima divisa a metà tra intuizioni creative e di comunicazione, ma poco incline agli aspetti gestionali. Un’alchimia quasi perfetta, quella tra i tre fratelli, spezzata con violenza nel 1997, quando Gianni fu assassinato a Miami da un serial killer. Aveva solo 51 anni ed era all’apice del successo come stilista, l’azienda cresceva a due cifre e veniva seguita e imitata in tutto il mondo. Donatella e Santo impiegarono anni a superare lo choc per la morte del fratello e trovare un nuovo equilibrio, anche perché Gianni aveva sì lasciato l’intera azienda alla famiglia, ma con una quota di maggioranza ad Allegra, primogenita di Donatella e all’epoca solo undicenne. L’apertura a manager esterni è stata forse tardiva: si sono susseguiti Giancarlo Di Risio (2004-2009), Gian Giacomo Ferraris (2009-2016) e, a oggi, Jonathan Ackroyd. I primi due se ne sono andati, si dice, per dissensi con Donatella. Il destino del terzo è in mano a Michael Kors. E Donatella? La sfilata di venerdì scorso a Milano ha confermato il suo felicissimo momento creativo e c’è da augurarsi – forse lo fa lei per prima – che le sia possibile restare in azienda con un ruolo di “garante” del Dna della maison. Il colosso francese Lvmh ha scelto questa via con Fendi e Bulgari, vedremo cosa farà il “ciclone” Kors.
MONICA D’ASCENZO SUL SOLE 24 ORE«L’Italia dovrebbe avere la prima multinazionale della moda al mondo. Invece per noi è più importante non far vincere gli altri, piuttosto che vincere insieme» commenta l’economista Giulio Sapelli, secondo il quale al nostro Paese mancano sia i capitali sia la capacità di cooperare. «Gli investimenti diretti se sono fatti per creare industria e occupazione non sono un problema, se invece poi portano via competenze e stile allora sì. La questione, quindi, non è tanto nel possesso azionario, ma in come viene definito il contratto fra gli azionisti. Esiste il diritto dei mercati ed esistono studi legali in grado di scrivere contratti a tutela di certe prerogative. Sarebbe inutile, invece, fare leggi che tentino di fermare all’origine certe operazioni. La dimensione internazionale dell’industria del lusso non si ferma con le leggi» osserva Sapelli. E c’è chi ha saputo fare da sè: «In Italia Armani ha fatto una scelta importante, assicurando al gruppo un piano di successione senza cessioni di quote di capitale e senza andare in Borsa» evidenzia Sapelli.D’altra parte in Italia un grande gruppo del lusso non è mai nato. «Volevamo un polo italiano ma nessuno ci ha risposto. Ho provato in tutti i modi: eravamo quotati e tra le aziende più grandi, e ho proposto alla stragrande maggioranza dei bei nomi italiani della moda e del lusso di studiare delle alleanze. Tutti hanno preferito tenere il controllo anche a costo, magari, di avere dei problemi». Era il 2011 e a parlare era Francesco Trapani, azionista e amministratore delegato di Bulgari, all’indomani della cessione del gruppo della gioielleria alla francese Lvmh di Bernard Arnault. Da allora diversi i marchi italiani che hanno cambiato azionista di maggioranza da Brioni, rilevato sempre nel 2011 da Kering (allora Ppr), a Loro Piana, acquisito nel 2013 da Lvmh.
«Non ne possiamo fare una questione di azionariato. Le famiglie che cedono i brand italiani dovrebbero avere la capacità e la forza di inserire nei contratti clausole secondo le quali per un lasso di tempo il compratore deve garantire che la produzione, lo stile, l’anima dell’azienda restino italiane» ribadisce Sapelli. Certo all’Italia un primato, negli ultimi anni, non si può negare ed è quello dei manager. Da Alessandro Bogliolo, ex ad di Diesel e prima manager in Bulgari, chiamato alla guida di Tiffany nel 2017 a Marco Gobbetti, ceo di Burberry dallo scorso anno dopo essere stato numero uno prima di Givenchy e poi di Céline; da Francesca Bellettini, ceo di Yves Saint-Laurent dal 2013, a Antonio Belloni, managing director di Lvmh dal 2001. Solo per citarne alcuni. «Si tratta per noi di motivo di grande soddisfazione. I manager italiani, che vengono dalla gavetta, sono fra i migliori al mondo. In Italia vengono penalizzati dal modello di governance» sottolinea Sapelli: «Abbiamo grandi manager. E i più bravi sono quelli che hanno imparato sul campo».
monica.dascenzo@ilsole24ore.com
NINO SUNSERI SU LIBERODopo Krizia, Valentino, Gianfranco Ferrè, Gucci, Bottega Veneta (solo per citarne alcune) c?è un?altra eccellenza della moda come Versace che passa agli stranieri. Una internazionalizzazione a senso unico perchè nessuna delle ?griffe? italiane è riuscita a espandersi in materia significativa all?estero. Sono state comprate e basta. Prada che acquista Church e qualche altra operazione marginale non rilevano. Legate alla figura del fondatore le ?griffe? italiane non sono riuscite a fare il salto di qualità e nemmeno il passaggio da una gestione famigliare alla dimensione manageriale. Nulla di paragonabile alla Francia dove Kering e Lvmh, hanno dato vita a grandi holding capaci di raggruppare le ecellenze del lusso in campo nazionale e internazionale (soprattutto taliane). Ci aveva provato vent?anni fa la famiglia Romiti con Maurizio (figlio di Cesare) mettendo insieme Fila, Valentino, Facis e qualcos?altro In tre anni aveva perso mille miliardi di lire. A finanziare i disastri del ?polo della moda? erano stati gli utili (allora abbondanti) di Rcs-Corriere della Sera. Un salasso iniziato alcuni anni prima acquistando dalla Ifi (oggi Exor) la Fratelli Fabbri. Anche il fondo Charme di Luca Montezemolo (Poltrona Frau, Ballantyne e altro) ha ottenuto risultati largamente inferiori alle attese e alla fine ha rinunciato alla moda. Da qui il via libera agli stranieri che hanno davanti praterie poco presidiate. Ancora adesso, infatti, il saldo tra le aziende familiari che vendono la maggioranza e quelle che restano saldamente in mano al gruppo originario pende a favore dei secondi, anche nel lusso. Il ?family business? in Italia rappresenta circa l?85% del totale, tra imprese grandi e piccole, ed è il 60% del mercato azionario. Nel sistema moda, le imprese familiari sono ancora di più e rappresentano il 78% su un totale di circa 645 aziende. La famiglia Missoni, dopo la scomparsa di Ottavio, ha fatto una scelta particolare: manterrà il controllo dell?azienda ma ha raggiunto un accordo con l?italianissimo Fondo Strategico per crescere. Nel caso di Versace, c?è una storia con un grande dolore. Il gruppo ha perso il suo fondatore carismatico più di venti anni fa, ma la famiglia è stata in grado di reagire, facendo crescere, pur nelle difficoltà, il valore del marchio. Una situazione poco consueta per l?Italia. Nel nostro Paese a differenza della Germania, non c?è una distinzione chiara tra la proprietà e la gestione. E la situazione peggiora se dai fratelli si passa a prendere decisioni tra cugini. Alla fine, la vendita diventa la soluzione migliore.