il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2018
Se lavori troppo vai in carcere. A Seul arriva il riposo di Stato
Nel 2008 Kwon Yong Seok aveva un’ulcera al fegato, la bocca amara, piena di alcol e sigarette. Lavorava 100 ore a settimana. Non riusciva a staccarsi da faldoni e scrivania neppure per andare a dormire. Era la sua dipendenza. “Ero esausto, ma non avevo il coraggio di smettere di lavorare, non sapevo cosa fare nella mia vita”. Cercando conforto o liberazione, pensò che per curarsi l’isolamento forzato fosse una buona idea e una ancora migliore era costruire una prigione per tutti quelli che soffrivano come lui. Dieci anni fa posò il primo mattone del carcere “la Prigione dentro di me”. Un penitenziario per chi lavora troppo, una gattabuia per stakanovisti, un carcere dove a qualche miglio da Seul, i detenuti sono tutti workaholic, lavoratori patologici, che “si consegnano” volontariamente a Gangwon. No relazioni umane, no alcol, no fumo. Solo silenzio e detenzione. Almeno 2 mila sono già stati rinchiusi e curati.
Prima di entrare in prigione consegnano cellulare, orologio, vestiti e infilano l’uniforme da galeotto sudcoreano. Il primo giorno in cerchio si raccontano chi sono, poi un giro di chiavistello, il secondo e sanno dal rumore della serratura che sono stati imprigionati. In cella ci sono un tappeto per lo yoga, un quaderno bianco, una teiera, un bottone anti-panico per le emergenze e, per molti, anche sollievo.
Nel mondo senza profitto e risultato, deadline di consegna e contratti da chiudere, c’è solo una fessura nella porta blindata da cui viene servito cibo. Poi abissale silenzio per aiutare la meditazione. La salvezza in 6 metri quadri di isolamento costa 500mila won alla settimana, meno di 500 euro, agli esausti in burnout, letteralmente bruciati dalla missione lavorativa. Compulsivi e maniacali, i 28 prigionieri delle 28 celle hanno tutti 28 storie diverse, ma una sola in comune: l’ossessione per la loro professione. Sono studenti, impiegati semplici o amministratori delegati che, pur di sentirsi liberi, si fanno imprigionare.
Duemilaventiquattro l’anno, 14 al giorno: queste sono le ore che i sudcoreani passano al lavoro, più di tutti in Asia, i terzi al mondo nella lista Ocse, Organizzazione per la cooperazione e sviluppo economico. Un tempo “disumano” secondo il ministero delle pari opportunità del paese. Per migliorare le condizioni di vita, aumentare tasso delle nascite, le autorità di Seoul hanno ridotto le ore lavorative da 68 a 52 settimanali lo scorso luglio. Proposta della Federazione coreana del commercio è anche pagare extra nei weekend, perché non bisogna lavorare nel fine settimana e compensare di più chi invece è tenuto a farlo. Sono tagli che forse per molti vorranno dire salari inferiori, per altri peggioramento della qualità del lavoro, per le grandi imprese è un rischio che si aggira su 12 trilioni di won in perdite, secondo il Korean Economic Research Insitute, oppure, dicono altri esperti, in un aumento del rendimento e della produttività. Ma è una scommessa, un passaggio obbligato verso la felicità voluto dal presidente Moon Jae che ha concesso ai suoi cittadini “il diritto al riposo”. Un ozio che per molti però è solo inferno ed astinenza, e quando fuggono, cercano qualcuno che li chiuda fuori da se stessi.
Il confino forzato è il nocciolo “del concetto del programma” dice Noh Jihyang, moglie dell’avvocato fondatore, che ora sorride dietro gli occhiali e sfoglia ormai solo fiori nei boschi, invece che vecchi incartamenti in ufficio. “Molti detenuti-ospiti facevano resistenza all’inizio, ma poi dicevano che la prigione non era la cella, ma il mondo fuori”.