Scritto e diretto da Drew Goddard, il film (nelle sale italiane dal 18 ottobre) ricorda l’humour e la violenza sopra le righe dei fratelli Coen, con costanti colpi di scena: è ambientato nel gennaio 1969, Richard Nixon è stato appena eletto presidente e sette estranei, ognuno con un segreto da nascondere, si incontrano nel fatiscente hotel El Royale di Lake Tahoe, diviso in due da una striscia rossa disegnata per terra che separa la California dal Nevada (le stanze in California costano un dollaro in più, in Nevada ci sono le macchinette per giocare d’azzardo ma non si possono ordinare alcolici). È un hotel con un glorioso ma oscuro passato. Nel corso di una singola notte ognuno dei protagonisti ha la possibilità di redimersi. Nel cast ci sono anche Jon Hamm, Chris Hemsworth, Dakota Johnson e la cantante di Broadway Cynthia Erivo.
Mr Bridges, lei rifiuta praticamente ogni progetto le venga offerto. Perché ha detto di sì a questo?
«Ormai sono pochi quelli che mi sorprendono. 2001 Odissea nello spazio, Blue Velvet o i primi film di Tarantino: c’era una freschezza autentica in quei film. Quando ho letto questo copione ho pensato: una cosa è certa, non puoi paragonarlo a nessun altro».
Come si è preparato a interpretare un prete?
«Io non sono cattolico, ma il regista sì. Quando avevo dubbi sugli aspetti religiosi era con lui che mi confrontavo. Ma ho trovato ispirazione anche in un prete che conobbi durante il servizio militare, don Harris. Arrivata la prima domenica di leva, il sergente, un tipo cattivissimo, dice: ok, brutti stronzi, potete scegliere se andare in Chiesa o rimanere sul campo e allenarvi con me. Ovviamente siamo finiti in chiesa in massa» (ride)
E com’è finita?
«Don Harris ci accoglie dicendo "quando siete qui non siete nell’esercito, siete nella casa del Signore". Hallelujah, ho pensato. Ed è stato proprio così. Potevo persino suonare la chitarra in chiesa, cantare, parlare con gli altri. Era il 1968, io avevo finito il liceo l’anno prima: era il 1967, l’estate dell’amore; dopo dieci settimane di campo d’addestramento ci danno il permesso di andare in città. A San Francisco. E don Harris dice: rompo le regole, vi procuro io gli abiti civili e vi porto in un posto dove non dovrei portarvi. E così finiamo al Carousel Ballroom a vedere Janis Joplin e Jefferson Airplane per la prima volta, e io resto lì a bocca spalancata e occhi di fuori. Vent’anni dopo ho chiesto a don Harris di celebrare il mio matrimonio.
Ecco, lui è il prete nascosto nel mio cuore, quello a cui ho pensato girando il film».
Lei contribuisce a combattere la fame infantile in America ed è sempre stato politicamente attivo. Quali sono le sue preoccupazioni maggiori con Trump, anche in relazione all’immigrazione e all’ambiente?
«Pensando al presidente sto imparando le posizioni di judo... Sta prendendo una marea di decisioni che personalmente non prenderei mai. Ma invece di lasciarmi deprimere, invece di pensare che è tutto finito, lo uso come fonte d’ispirazione per cercare di ricostruire un mondo che mi piaccia, in cui i miei figli possano vivere. Ho appena finito di girare un film che uscirà presto intitolato Living in the future’s past, che affronta i temi dei mutamenti climatici. Non volevamo limitarci a mostrare il disastro che siamo diventati, ma proporre un diverso punto di vista: così esploriamo l’evoluzione invitando filosofi, politici, militari per darci le loro opinioni su come rispondere a quello che sta succedendo. Ne vado fiero e sono molto soddisfatto. Quindi, in effetti uso Trump per farmi venire nuove idee...».
Anche per questo film ha personalmente realizzato un libro di scatti in bianco e nero. Che posto occupa la fotografia tra le sue passioni?
«Ho cominciato a fare foto al liceo nei primi anni Sessanta.
Avevo una camera oscura in bagno, ci passavo le ore.
Quando ci siamo sposati, mia moglie Susan mi ha regalato una Widelux: una vera bellezza. All’epoca giravo Starman di John Carpenter e sul set facevo foto al cast e alla troupe. Karen Allen, la coprotagonista, mi suggerì di metterle tutte insieme in un libro. Ed effettivamente, da allora l’ho sempre fatto. Faccio foto in bianco e nero, e su pellicola, perché è così che ho cominciato ed è quello che amo. Ora riguardo quei libri e mi danno molta gioia, è come rivedere vecchi film, mi riportano indietro. E poi il bianco e nero è bello anche al cinema. Una volta Peter Bogdanovich, mentre giravamo Texasville con Cybill Shepherd, mi ha detto: se ti capita di guardare un film in tv, togli il colore e mettilo in bianco e nero. Vedrai che ci guadagna! E aveva ragione».
La chiamano ancora il Drugo, dal suo mitico personaggio di "Il grande Lebowsky". Le dispiace?
«Niente affatto! Amo quel personaggio e quel film. Mi sarebbe piaciuto anche se non ne avessi fatto parte. Con la mia band, gli Abiders, siamo andati a suonare a un Lebowsky Festival. Mi piace definirlo il mio "momento Beatles". I Coen sono fantastici, e la cosa che più ammiro di loro è che non ne vedi gli sforzi. Ogni volta che mi ricapita di beccare quel film in televisione me lo riguardo tutto, come una caramella che non puoi smettere di succhiare. Tutti gli attori sono fantastici, basti pensare a John Turturro! Quindi no, non mi dispiace, chiamatemi pure Drugo quanto vi pare. Non mi offendo».