la Repubblica, 25 settembre 2018
Dall’India alla Siberia, il futuro delle griffe è in mano ai ricchissimi
Negli anni molte celebri famiglie della moda italiana, quelle che l’hanno inventata nel secolo scorso, si sono liberate dei loro marchi, da Fendi a Krizia, da Gucci a Roberto Cavalli, salvati dalle banche o fagocitati da grandi gruppi finanziari stranieri: Recentemente i Missoni, arrivati alla terza generazione, ne hanno ceduto una parte, adesso anche Donatella, Santo, Allegra Versace vendono e si può capire; hanno resistito con passione e accanimento alla tragica fine di Gianni che aveva rivoluzionato la moda restituendo alle donne il potere della bellezza, hanno superato pericoli e crisi per un paio di decenni: due miliardi di dollari o quasi possono indurre alla rinuncia e finalmente, a dare un altro senso alla propria vita.
Del resto tutto l’immenso pianeta della moda, in cui quella italiana è ancora insuperabile per creatività e produzione, si sta evolvendo rapidamente adeguandosi all’incertezza del futuro. Così le recenti sfilate milanesi molto osannate, si rivolgono fantasiose alla primavera del 2019, un tempo che oggi appare lontanissimo e imperscrutabile, addirittura minaccioso. Dove si avrà voglia di adeguarsi ancora una volta al lusso, alla stravaganza, al poverismo, al principesco, al cafonissimo, al raffinato, al brutto, al colto, a uno dei tanti diversi rivoli di una moda che ormai tutto comprende e tutto esclude, chiusa in se stessa, nel suo ansioso richiamo mercantile, non più in grado di guardare al mondo e di rappresentarlo? In Kazakistan, in Siberia, a Singapore, nel Sichuan, nel Bahrain, nel Gujarat, in Lombardia? La ricchezza che oggi compra senza problemi la nostra moda è di quelle mai esistite prima, come racconta la trilogia asiatica di Kevin Kwan (i primi due romanzi pubblicati da Mondadori): e per esempio dall’India è arrivata una carovana di ultramiliardari per festeggiare in una antica villa sul lago di Como il fidanzamento di un industriale e re di Bollywood: ore di fasto, canto, balletti, manicaretti, nessuno a guardare l’incanto del luogo ma tutti la sfilata della massima star della nostra moda opulenta: da cui poi la mamma dello sposo ha comprato una montagna di abiti da regalare alle invitate. Il futuro della moda italiana anche se ormai di proprietà cinese, francese, americana, ecc. ma prodotta qui, è nel grande popolo mondiale dei nuovi ricchi, come un tempo l’haute couture francese, che si rivolgeva ai privilegiati della aristocrazia e dell’industria.
Ma quale moda italiana, quella che era nata proprio per popolarizzare il bel vestire o di nuovo quella esclusiva, irraggiungibile ai più? In questa settimana di sfilate l’insicurezza si è espressa talvolta quasi sminuendo abbigliamento e modelle e privilegiando la scelta di luoghi impensabili (detti purtroppo location) e poi offrendo anche il concerto, la cena; e aprendo quel che viene persino definito evento, anche a non addetti ai lavori, al pubblico dei giovani fan che di solito si piazzano agli ingressi per veder passare, superbi, gli ospiti di riguardo di solito mascherati in modo da oltrepassare la moda che vedranno.
È già iniziata quindi la separazione di classe anche nel vestire: da una parte le creazioni sublimi, quelle che un tempo venivano presentate a poche facoltose clienti tenendo lontana la stampa perché non ne divulgasse l’esclusività. Dall’altra gli imperi mondiali della moda per tutti, che vestono con 50 euro e agli sconti, con 10: le vie dello shopping sono gremite di adolescenti e ragazzi, ognuno in quel infinito bazaar trova di che inventare la sua immagine. I nostri industriali della moda si sono offesi ma non hanno davvero smentito l’accusa di lavoro nero del New York Times; però bisogna chiedersi anche quanto avrà guadagnato su un golfetto venduto a 9.90 euro nei mercatoni, l’operaia che l’ha fatto. Venti centesimi, un piatto di riso?