Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2018
Storia di Mario Ciancio Sanfilippo
Catania
«Ma Mario Ciancio che dice?». La frase, a Catania, è quasi l’ovvia conclusione di ogni discorso sugli affari. Sia che si tratti di agricoltura, che si tratti di edilizia ospedaliera, di costruire un centro commerciale, un albergo o ancora di bonificare aree della città la conclusione è sempre quella: «Mario Ciancio che dice?». Sottintendendo ovviamente che in ogni affare ci possa essere (o ci sia) l’interesse diretto o indiretto dell’editore del quotidiano La Sicilia di cui è direttore ed editore dal 1977 dopo averlo ereditato dallo zio, Domenico Sanfilippo, che lo ha fondato nell’immediato dopoguerra. Mario, per tutti “il direttore”, lo dirige da oltre 40 anni e dal piano nobile del giornale sono passati tutti i potenti degli ultimi quarant’anni di storia italiana e siciliana in particolare: sembrava destinato a una brillante carriera forense, ha scelto l’editoria. Che poi significa anche relazioni e potere.
Cinque figli, 86 anni, Mario Ciancio oltre a collezionare reperti archeologici ha collezionato per anni incarichi (è stato presidente della Fieg e dell’Ansa) ma anche maldicenze e accuse. Ha impiegato gli ultimi anni a incassare le accuse di numerosi pentiti di mafia e procedimenti giudiziari per la sua presunta vicinanza interessata alla mafia catanese. Senza perdersi d’animo come è nel suo stile: «Ho avuto sempre problemi nella mia vita, ne ho avuti tanti, mi hanno messo le bombe, mi hanno tagliato gli alberi in campagna, mi hanno messo le teste di capretto – ha detto qualche anno fa -. Ma io sono un uomo... Sono un ottimista, io vivo col sorriso sulle labbra».
E certo la storia trama contro il direttore, per le sue amicizie e i suoi rapporti d’affari. Per l’amicizia, vera o presunta, con Nitto Santapaola, per anni il capo di Cosa nostra a Catania, e i suoi parenti: gli Ercolano. Per l’amicizia e gli affari con imprenditori parecchio chiacchierati come Carmelo Costanzo, Getano Graci, Francesco Finocchiaro e Mario Rendo ovvero con coloro che Pippo Fava, giornalista ucciso da uomini del clan Santapaola il 5 gennaio 1984, aveva definito «I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa». Del resto, qualche anno prima era stato Carlo Alberto Dalla Chiesa, appena nominato Alto commissario per la lotta alla mafia a chiedere al prefetto di Catania documenti sui Cavalieri e nell’ultima intervista a Giorgio Bocca aveva dichiarato: «Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo». Loro stessi, i Cavalieri, protagonisti di vicende giudiziarie complicate: ha fatto discutere la sentenza del 1991 che ne assolveva un paio con la motivazione che avrebbero subito la protezione dei Santapaola per necessità. Ciancio con alcuni dei Cavalieri condivideva, per esempio, la passione per l’editoria: con Costanzo acquisì il 16,5% del quotidiano palermitano Il Giornale di Sicilia : operazione che, secondo il racconto di Massimo Ciancimino, sarebbe stata fatta con la “benedizione” di don Vito.
È anche vero che per tutti gli anni 70 e 80 a Catania era abitudine per pezzi dello Stato frequentare mafiosi come Santapola,come lo era per imprenditori e politici in un equilibrio tra poteri in cui Cosa nostra stava alla pari. In quel clima, chiamiamolo contesto, tutto sembrava normale.
Lo stesso Ciancio lo ha dichiarato in un’aula di giustizia, testimoniando al processo per l’omicidio Fava: «In quell’epoca ancora la mafia era un oggetto misterioso. Certo, tutti quanti sapevamo la mafia, ma nessuno era convinto che la mafia fosse a Catania, in quei termini». E alla domanda sull’atteggiamento nei confronti di Santapola ha risposto: «Fino agli anni in cui non ci fu il famoso delitto Dalla Chiesa nessun atteggiamento, perché nessuno sapeva che Santapaola fosse un autorevole personaggio della mafia siciliana». I detrattori lo accusano di aver negato il necrologio dei familiari del commissario Beppe Montana ucciso da Cosa nostra perché conteneva la parola mafia o di aver pubblicato senza censura la lettera dal carcere di Vincenzo Santapaola, detenuto al 41bis. Fino ai giorni nostri, ai fondi trovati all’estero, alle intercettazioni, al processo e ieri al sequestro dei beni.