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 2018  settembre 24 Lunedì calendario

Paolini, l’assaggiatore del Führer

Lo chiamano romanzo, ma racconta una storia vera. «I fagiolini erano conditi con il burro fuso. Non mangiavo burro dal giorno del mio matrimonio», si legge all’inizio del primo capitolo. «L’odore dei peperoni arrostiti mi pizzicava le narici, il mio piatto traboccava, non facevo che fissarlo». Poi l’ordine perentorio delle SS: «Mangiate!». Incredibile: di solito gli aguzzini nazisti urlavano «Raus, runter!», fuori, giù, agli ebrei che ad Auschwitz si trovavano di fronte la Judenrampe, la rampa di legno che dal treno della deportazione li avrebbe condotti alle camere a gas. «Lo strudel di mele è così buono che d’improvviso ho le lacrime agli occhi, così buono che ne infilo in bocca brani sempre più grossi, ingurgitando un pezzo dopo l’altro sino a gettare indietro la testa e riprendere fiato, sotto gli occhi dei miei nemici».
Autunno 1943. Immaginate la scena di Rosa Sauer, denutrita, un marito che combatte sul fronte russo, reclutata con altre nove donne di Gross-Partsch, un villaggio dove nella foresta c’è la Tana del Lupo, il quartier generale di Adolf Hitler. Tutte costrette a mangiare ogni giorno i pasti che saranno serviti al dittatore e poi tenute in osservazione per un’ora, in modo da accertare che non siano avvelenati. Potenziali candidate all’obitorio, rimpinzate con ogni bendidio mentre i loro figli e parenti non hanno di che cibarsi.
Il personaggio che ha ispirato la storia non è un parto della fantasia. Si chiamava Margot Wölk. È morta nel 2014, a 97 anni. In occasione del suo novantacinquesimo compleanno, rivelò al Berliner Zeitung il segreto che aveva taciuto per tutta la vita. Rosella Postorino ne ha fatto la protagonista di Le assaggiatrici (Feltrinelli), che ha meritatamente stravinto con 167 voti la 56ª edizione del premio Campiello.
La lettura del libro mi ha fatto riandare con la memoria a Salvatore Paolini, il cameriere di Hitler. Lo rintracciai 15 anni fa in Abruzzo, a Villa Santa Maria. Lui le cavie umane come Margot Wölk, alias Rosa Sauer, non le vide mai. Mi parlò invece di «due agenti della sicurezza» che «arrivavano prima del pranzo e assaggiavano le pietanze che avrei portato in tavola di lì a poco». Insomma, è fuori discussione il fatto che il capo del Terzo Reich avesse paura di finire avvelenato, esattamente come l’imperatore Claudio, spedito all’altro mondo con un piatto di funghi tossici dalla madre di Nerone, o come, per venire ai tempi moderni, Nicolae Ceausescu, Saddam Hussein e Vladimir Putin, tutti provvisti di assaggiatori personali.
Paolini è morto nel 2010, a 86 anni. Aveva servito Hitler all’Obersalzberg, la montagna fra Germania e Austria che era considerata la seconda capitale del Reich, dove funzionava una cancelleria come a Berlino. E poi anche a Norimberga, al Deutscher Hof, l’hotel che nell’insegna si fregiava di ospitare il «Wohnung des Führers», l’appartamento del leader nazista.
Sulle Alpi vicino a Salisburgo, dominate dal Kehlsteinhaus, il Nido dell’Aquila, avevano la villa pure Hermann Göring, l’ideatore della Gestapo, maresciallo del Reich; Martin Bormann, il segretario del Führer; dormiva Eva Braun, l’amante; soggiornavano gli altri fedelissimi del dittatore, fra cui Joseph Goebbels, Albert Speer, Otto Hoffmann. Paolini versava la zuppa nel piatto a tutti: «Il menù era concordato con largo anticipo e lo chef sapeva benissimo che cosa piaceva o non piaceva al Führer». Il quale «alla fine del pranzo si congedava sempre da noi con un “Sehr gut”, molto buono».
«Sedeva a tavola pure il medico personale, il dottor Theodor Morell, la cui camera era accanto a quella di Hitler, e una volta venne a colazione Heinrich Himmler, l’ideatore dei campi di sterminio», mi raccontò l’ex cameriere.
Paolini aveva sposato la figlia di Camillo Finuoli, che fu il cuoco del Duca d’Aosta e accudì fino all’ultimo l’eroico viceré d’Etiopia nel campo di prigionia inglese in Kenya: «Morì di malaria. Sono ancora insieme, seppelliti uno accanto all’altro nel sacrario», mi spiegò. Invece suo genero, Carlo Di Lello, a 16 anni era già a sgobbare sulle colline di San Martino Buon Albergo, nella tenuta del duca Pietro d’Acquarone, il ministro della Real Casa sposato con Maddalena Trezza di Musella, ereditiera della famiglia che a Verona aveva in appalto la riscossione delle imposte.
Il paese dove Paolini nacque e fu anche sindaco dal 1977 al 1997 è di sicuro quello con la più alta concentrazione di comprimari della gastrostoria: da Giovanni Di Lello, il cuoco di Edda Mussolini e Galeazzo Ciano, ad Aquilino Beneduce, che la sera del 9 settembre 1943 sfamò re Vittorio Emanuele III e il suo seguito, in fuga da Roma verso Brindisi dopo l’armistizio, fino a Giovanni Spaventa, che all’hotel Cipriani di Venezia servì i presidenti americani Jimmy Carter, Ronald Reagan e George Bush senior, quello francese François Mitterrand e il premier inglese Margaret Thatcher.
Dopo aver prestato la propria opera nella magione romana dei principi Colonna («mi pagavano una miseria»), per guadagnare di più Paolini andò a lavorare al Diana, l’albergo della Capitale che ospitava molti ufficiali tedeschi. Furono loro a procurargli un contratto per trasferirsi in Germania.
Arrivò così alla Kurhaus di Bad Mergentheim, una cittadina termale. Là andava a passare le acque il direttore del Platterhof, l’albergo dell’Obersalzberg riservato ai gerarchi nazisti e collegato da un tunnel sotterraneo al Berghof, la residenza privata di Hitler. «Vide che ero giovane, bello e bravo, sentì che parlavo un discreto tedesco e mi chiese: “Vuol venire a lavorare da me al Nido dell’Aquila?”», rievocò Paolini. «Io avevo appena 18 anni, manco capivo di che stesse parlando. Ignoravo che quella fortificazione sulle Alpi bavaresi fosse il centro di villeggiatura del Terzo Reich. Finisco la stagione qui e vengo, gli risposi. “D’accordo. Intanto mi fornisca i suoi dati anagrafici, così le preparo i documenti”, replicò lui. A mia insaputa, assunse informazioni in Italia: voleva verificare che fossi di razza ariana. I miei si videro arrivare i carabinieri a casa e presero un grande spavento, credevano che avessi combinato chissà che cosa. I tedeschi mi guardarono in bocca, mi fecero i raggi X al petto, insomma una visita medica accurata».
L’Obersalzberg era inaccessibile ai turisti. Il governo nazionalsocialista  aveva confiscato 300 ettari di prati e boschi ai legittimi proprietari, molti dei quali finirono a Dachau per essersi opposti all’esproprio. Hitler vi era giunto la prima volta sotto falso nome nel 1923, dopo il fallito putsch di Monaco, il colpo di Stato organizzato in birreria. Si faceva chiamare dottor Wolf. Qui completò la stesura del Mein Kampf. Fu con i diritti d’autore intascati per il suo manifesto ideologico che acquistò la casetta trasformata a partire dal 1935 nel lussuoso Berghof. «Io potevo arrivarci solo con questo qui, il Vorläufiger Fremdenpass, una specie di passaporto», mi disse Paolini. Per la vergogna, aveva grattato via dalla copertina la svastica serrata negli artigli dell’aquila, simbolo del Terzo Reich.
Nella sua memoria, i ricordi dei pranzi del dittatore erano nitidissimi. «All’improvviso, da una porta interna, compariva lui, il Führer. Non capivo da dove arrivasse, ancora non sapevo del camminamento segreto. Tutt’intorno alla sala si disponevano le SS in borghese. Vestiva sempre in abiti civili».
A tavola il tiranno sanguinario si rivelò vegetariano: «Mai carne. Solo patate, verdure e legumi, molto  speziati, perché un attacco con i gas mostarda durante la prima guerra mondiale gli aveva rovinato le papille gustative. E soprattutto dolci, tantissimi dolci, torte enormi coperte di panna montata». E pure astemio: «Beveva poco. Un sommelier stappava bottiglie d’annata, mica vino da chiacchiere. Ma lui lo assaggiava appena. In tavola erano più numerose le caraffe d’acqua».
Bormann, che non era certo tipo da insalata e spinaci, senza dare troppo nell’occhio s’era costruito un porcile per rifornire la propria mensa, dimostrando un notevole sprezzo del pericolo, perché Hitler diffidava dei carnivori, come mi chiarì Paolini: «Una volta, vedendo Göring che con una certa avidità prendeva dal piatto di portata prosciutto al forno con i piselli, sibilò: “Ich wußte nicht dass das Schwein sein eigenes Fleisch ißt”, non sapevo che il maiale mangiasse la propria carne. E tutti capirono che Göring non era più nelle grazie del Führer».
In netto contrasto con l’iconografia ufficiale consegnataci dalle adunate oceaniche e dai comizi spiritati, l’anziano cameriere abruzzese sosteneva di non aver visto neppure una volta il dittatore infuriarsi: «Parlava sommessamente, non alzava mai la voce. Non aveva quell’aria truce che tutti immaginavano. L’atmosfera era conviviale, allegra. Lui sedeva al centro della tavolata, dando le spalle al muro, in modo che lo sguardo spaziasse sul panorama oltre la vetrata».
Ai pranzi partecipava regolarmente Eva Braun, insieme con le mogli degli altri gerarchi. «Ma Hitler non la faceva accomodare al suo fianco. Del resto, nel Berghof dormivano in camere separate. Fu lassù che lei lo tradì con Hermann Fegelein, ufficiale di collegamento di Himmler presso Hitler. Per starle vicino, Fegelein non aveva esitato a sposare Gretl Braun, la sorella minore di Eva. Le nozze furono festeggiate proprio al Nido dell’Aquila. Scoperta la tresca, il generale delle SS venne degradato e fucilato nei giardini della cancelleria a Berlino».
I pasti al Nido dell’Aquila non erano frequenti: «Hitler preferiva restare al Berghof. Non è che amasse molto quel rifugio a 1.834 metri di quota che Bormann gli aveva regalato in occasione del 50° compleanno. Nei piani nazisti avrebbe dovuto rappresentare l’ultimo inespugnabile baluardo del Reich. Infatti fu l’unica costruzione dell’Obersalzberg che il 25 aprile 1945 resistette al bombardamento della Royal air force britannica. Per renderglielo più piacevole, era stato installato un ascensore decorato con specchi, sedili di pelle e ottoni. Nell’atrio ottagonale c’era un camino in marmo verde, dono di Benito Mussolini».
Paolini restò all’Obersalzberg fino al 1943. Poi passò al servizio del console italiano a Monaco, Roberto De Cardone, che seguì anche a Nîmes, in Francia. «Ma dopo qualche tempo tornai in Germania e, con le referenze che avevo in tasca, mi fu facile farmi assumere al Deutscher Hof di Norimberga. Sulla facciata dell’hotel, ai lati di una delle finestre, sventolavano due bandiere con la croce uncinata, a indicare che lì c’era l’appartamento privato del Führer. Nella sala riservata venivano a pranzare o a cenare con Hitler gli stessi capi nazisti che avevo incontrato all’Obersalzberg: Goebbels zoppicante, Himmler con i suoi occhialini, Göring sempre più grasso e intristito. Noi camerieri indossavamo il frac e i guanti bianchi e, mentre i commensali mangiavano, dovevamo rimanere con le spalle appoggiate al muro».
Chiesi a Paolini: ma lei a quell’epoca sapeva che Hitler stava sterminando ebrei, zingari, avversari politici, omosessuali? «Qualcosa si sentiva in giro, ma non potevo farci niente», rispose. «E comunque come lavoratore ero rispettato. I tedeschi mi chiamavano solo e sempre Herr Paolini, signor Paolini. Al Platterhof avevo una stanza tutta per me, con le cameriere che mi servivano. Che cos’era la Germania! Lei non può capire. Un lavapiatti, finito il suo turno, era autorizzato a sedersi in terrazza a prendere il tè accanto ai colonnelli. In Italia manco un caporale avrebbe potuto avvicinare».
Stupefacente il giudizio finale su Hitler: «Per me era un uomo a posto. Con noi camerieri ha sempre usato la massima cortesia: “Entschuldigen Sie”, mi scusi; “Danke schön”, grazie mille». Sarebbe bastato che Paolini vedesse il dittatore in azione nel film Il giovane Hitler per capire con chi ebbe a che fare in realtà. Fino alla scena finale, una frase su fondo nero attribuita a Edmund Burke: «La sola cosa necessaria affinché il male trionfi è che gli uomini buoni non facciano nulla».
Citazione falsa, perché Burke, il Cicerone britannico, mai la scrisse e mai la pronunciò. Eppure vera, perché non esiste al mondo alcun individuo che non la percepisca come tale.
 
 
(L’Arena – 23 settembre 2018)