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 2018  settembre 20 Giovedì calendario

Com’è nata l’intervista che ha riaperto il caso Woody Allen

Lo scorso inverno Daphne Merkin ha scritto, prima che diventasse normale avere dei dubbi sul MeToo, il primo articolo che osasse mettere in discussione il movimento. Era un editoriale sul New York Times, giornale del quale è collaboratrice. La chiamai per parlare di vittimismo, uno dei rischi affrontati nel suo pezzo. Era a Gerusalemme. Nella conversazione venne fuori anche Woody Allen. Mi disse che l’avrebbe visto una volta tornata a New York, «Soon-Yi mi ha scritto ieri per invitarmi a cena». Pensavo fosse un’informazione superflua, e invece mi stava avvisando che di lì a poco avrebbe cominciato a costruire quello che, nove mesi dopo, sarebbe stato il caso della settimana. Il caso della settimana è un caso di ventisei anni fa. In quel “fine pena: mai” che è diventato il ripescaggio di episodi controversi del passato nell’anno del MeToo, Woody Allen fa storia a sé.
Riassunto delle versioni precedenti. Nel gennaio del 1992 Mia Farrow trova delle foto di una delle sue figlie, la ventunenne Soon-Yi, adottata ai tempi della relazione con André Previn. Nelle foto Soon-Yi Previn è nuda. Le ha scattate Woody Allen, che nel 1992 è ufficialmente il compagno di Mia e con lei sta girando Mariti e mogli, un film la cui visione vi sarà più utile di qualunque articolo per capire le dinamiche di casa Farrow. Le reazioni della signora Farrow sono scomposte (lo sarebbero anche le mie e le vostre), e includono l’invio ad Allen, per san Valentino, d’un cuore con foto di famiglia trafitto da spilloni, e la promessa alla sorella di Allen «Lui ha preso mia figlia, e io prenderò la sua».
In agosto, Farrow accuserà Allen d’aver molestato sessualmente – una sola volta, in un pomeriggio in campagna – una delle bambine che hanno adottato insieme. Allen verrà prosciolto dalle accuse ma condannato dall’opinione pubblica (nessuno crede abbia molestato una cinquenne, ma molti sono indignati che si sia messo con la figlia ventunenne della fidanzata, e moltissimi non hanno chiaro che il padre adottivo della ragazza non è lui ma André Previn). Questa è la storia di quattro articoli. Il primo è del novembre 1992, esce sull’edizione americana di Vanity Fair, lo scrive Maureen Orth, amica di Mia. Il dettaglio non viene tenuto in alcuna considerazione, com’è ovvio: sarebbe sciocco pensare che, in una situazione così delicata, ci si affidasse a un giornalista col quale non si ha un rapporto pregresso.
La storia va scemando, Woody Allen resta insieme a Soon-Yi, si sposano, adottano due bambine, lui continua a fare un film all’anno. Il secondo articolo è del 2013. Lo scrive sempre Orth, esce sempre su Vanity Fair, e forse avete sentito parlare d’un dettaglio: è l’intervista in cui Mia butta lì che Ronan, fin lì unico figlio biologico di Woody Allen, potrebbe pure essere figlio di Frank Sinatra. Il terzo non è proprio un articolo. È una lettera aperta di Dylan Farrow, la fu bambina che secondo mamma Mia papà Woody aveva molestato. La ospita, sul sito del New York Times, il blog di Nicholas Kristof, amico di Mia. Dylan ribadisce che Woody la molestò. È il 2014, e lo strazio si rinnova: credere che Woody Allen abbia avuto un unico pomeriggio da pedofilo nella sua vita è difficile per chi sia dotato di logica; ma credere che Mia Farrow abbia plagiato una figlia per decenni per vendicarsi dell’uomo che l’aveva piantata richiede un immaginario überbergmaniano.
Il quarto articolo è il caso della settimana: Soon-Yi viene intervistata per il New York Magazine da Daphne Merkin. Non fa rivelazioni sconvolgenti, anzi dice cose già intuite da chiunque avesse seguito la storia – l’amore tra Mia e Woody era finito e la coppia proseguiva per inerzia, lei si affezionò a Woody perché era l’unico gentile con lei e la loro storia si è consolidata soprattutto grazie allo scandalo, Mia con lei era crudele e le dava della ritardata, e in generale era anaffettiva coi figli che accumulava ma ogni tanto le scattava l’ossessione per qualcuno: la sua ossessione principale era Ronan, che voleva allattare fino alle elementari – ma per la prima volta parla, ed è un evento più inaspettato del primo film non muto di Greta Garbo. Da quando l’intervista è stata messa on line, domenica notte, le reazioni dei giornalisti americani sui social sono state scomposte quanto quelle d’una donna tradita. Sul Guardian, Hadley Freeman ha scritto un pezzo la cui sovversiva tesi è «Soon-Yi ha diritto di raccontare la sua storia»; che ci sia bisogno di ribadire il diritto di qualcuno a parlare della propria vita la dice lunga. Qui, Daphne Merkin spiega un po’ di cose sull’intervista e dintorni.

Cominciamo da com’è cominciata.
«L’avevo vista una o due volte, Soon-Yi. Anche di Woody, non è che sia così amica: ci conosciamo da molti anni, ma ci vediamo due o tre volte l’anno, e a volte neanche quelle. In maggio eravamo a cena e le ho detto: “Considereresti l’idea di parlare, di raccontare la tua storia?”. Lei mi ha chiesto tempo per pensarci, e dopo un paio di settimane mi ha detto di sì. Me ne sono sorpresa, visto che è una persona molto riservata. E lo è davvero, non come quelle che dicono “sono riservata” e poi si mettono in mostra dappertutto.
Non aveva mai rilasciato una dichiarazione in ventisei anni, in effetti. Ma ricordo che, quando parlammo di Allen lo scorso inverno, lei mi disse che riteneva l’avesse danneggiato il non raccontare mai la propria versione dei fatti. Appena ho visto l’intervista ho pensato: ormai anche la persona più discreta non può permettersi di tacere.
«Viviamo in un’epoca in cui il silenzio viene visto come assenso, come complicità; oppure come imbarazzo, ammissione di colpa. La conversazione è a un livello di decibel talmente alto che non puoi stare zitto».
Lei collabora col New York Times. Cosa ci dice il fatto che l’intervista non sia uscita lì?
«Sa che non gliel’ho neppure proposta? Avevo l’impressione che non fossero aperti a un’offerta del genere. Tempo fa ho proposto di scrivere di Woody Allen in un modo più complesso e sfumato di come viene affrontato di solito il caso, e un editor mi rispose che lì dentro in molti lo consideravano un molestatore di bambini».
Nella sua intervista cita l’agghiacciante versione della vita in casa Farrow data da Moses, il figlio che appoggia la versione di Woody e smentisce quella di Mia. Quella di Moses è una storia talmente enorme che pare assurdo l’abbia dovuta pubblicare sul suo blog, inspiegabile che nessun giornale l’abbia ospitata.
«Credo che l’avesse proposta invano proprio al New York Magazine. Sì, credo dica molto della cultura del politicamente corretto, del terrore di andare contro le sacre scritture di Mia e Ronan e Dylan. Sui social sono come lemming, sa quegli animaletti che si buttano nel burrone? Ecco: si gettano contro un obiettivo alla cieca, senza ragionare. Ma cosa ci dice dello stato del giornalismo il fatto che assecondi i social? Un sistema che vuole compiacerli è traviato senza neppure esserne consapevole. Non voglio guardare Twitter perché mi inibirebbe, mia figlia ventenne mi ha fatto vedere un po’ di tweet su questo articolo ma ho richiuso subito».
Come saprà, la accusano d’essere di parte in quanto amica di Allen.
«Un’obiezione da giornalismo investigativo, proprio: lo dichiaro io nell’articolo».
A me sembra abbastanza normale che ci si affidi, per un caso così delicato, a qualcuno che si conosce: l’aveva fatto anche Mia con Maureen Orth.
«Con la differenza che io l’ho scritto, che ci conosciamo».
Cosa pensa dei due profili dei Farrow scritti da Orth?
«Non li ho riletti di recente, all’epoca ricordo che mi sembrarono faziosi. Mi pare che Woody Allen mi abbia raccontato che lo chiamarono una sera per avere la sua versione dei fatti, e il giornale usciva il giorno dopo. Erano pezzi che accoglievano supinamente la versione di Mia: mi sembra giornalismo sciatto».

***

Più tardi manderò una mail a Maureen Orth chiedendole cosa pensi dell’intervista a Soon-Yi. Mi risponderà: «È quel che io chiamo “giornalismo da divano”: la giornalista sta lì seduta e trascrive senza verificare. Non è all’altezza dei miei standard». La stima tra le due signore è evidentemente reciproca. È altresì interessante notare come l’accusa che si scambiano sia la stessa: aver accolto passivamente la versione dell’intervistata. Come se, in quel rashomon di tradimenti e drammi familiari e accuse impossibili da provare, fosse possibile verificare qualcosa, arrivare a una versione oggettiva dei fatti.

***

È una mia impressione o la furia contro Woody Allen è più intensa adesso – addirittura la sospensione dell’uscita del suo ultimo film – di quando le accuse erano fresche? C’entra il ruolo di Ronan Farrow – schierato con la madre – come aedo del MeToo in quest’ultimo anno, il fatto che ora nessuno voglia contraddirlo?
«È considerato il ragazzo d’oro, il prodigio del momento, il New Yorker gli ha dato molta visibilità ed è una referenza di gran prestigio, ha vinto il Pulitzer, e nessuno se non in privato osa sollevare la questione del conflitto di interessi».
L’unico che l’abbia menzionata, in decine d’interviste televisive che ho visto, è Stephen Colbert, che sarebbe un comico e non un giornalista.
«Ah, ecco, neanche me n’ero accorta. Nessuno lo dice, nessuno chiede: ma non sarà che questa delle molestie è una tua ossessione personale, non c’entrerà quel che tua madre ti ha raccontato di tuo padre? Per dire quant’è intoccabile: su richiesta del New York Magazine, ho cercato Mia Farrow per sapere se volesse rispondere alle accuse di Soon-Yi. Non mi ha risposto, ma in compenso Ronan ha chiamato il direttore, una cosa inaudita».
Ma per chiedergli di non far uscire il pezzo?
«Non so cosa si siano detti, ma ha ottenuto di farsi mandare l’intervista da leggere. A quel punto sono arrivate due liste di richieste, una da parte sua e una dall’avvocato di Dylan, di dettagli che volevano venissero rimossi dall’articolo. Ho passato tre ore nell’ufficio legale del giornale a difendere ogni riga, ma purtroppo su molte cose abbiamo ceduto».
Tipo?
«Per esempio, è una cosa piccola, ma io avevo scritto che conoscevo Woody da quarant’anni, e Ronan ha tirato fuori un vecchio saggio, una cosa complessa sulla mitizzazione delle figure pubbliche in cui raccontavo di avergli scritto una lettera da fan, per sostenere che eravamo amici. E quindi, per accontentarlo, abbiamo cambiato in “siamo amici”; anche se, come le ho spiegato prima, non è che siamo poi così amici: con gli amici mica ti vedi due volte l’anno. Ho dovuto togliere i messaggi che aveva scritto a Moses una sua ex insegnante, dicendogli che ammirava il suo coraggio e gli credeva. Oppure, quando Mia trova le foto, io avevo scritto che aveva colpito Soon-Yi con un telefono e l’aveva presa a calci, ma l’unica cosa che lei ammette è d’averla presa a schiaffi, e quindi alla fine è rimasto solo quello. Mi hanno chiesto se c’erano testimoni di quando le lanciava oggetti, ma sono fatti che sono accaduti quand’erano sole, non possono esserci testimoni: è la versione di Soon-Yi, non viene mai spacciata per altro».
A voler giocare col kit dello psicologo, ci sono molte proiezioni possibili in questa vicenda. Una è che la ventunenne Soon-Yi Previn che ruba l’uomo alla madre sta replicando il comportamento di mamma Mia, che aveva 24 anni quando rubò a Dory Previn quel marito con cui poi adottò Soon-Yi.
«E aveva 19 anni quando si mise con Sinatra che ne aveva cinquanta: Soon-Yi ne aveva 21 e lei parla di plagio. La verità è che Mia, che non ha niente di materno, passa per l’archetipo della madre perché il pubblico non è in grado di vedere la complessità patologica della sua continua messinscena: pensano sia madre Teresa che distribuisce il bene agli orfani. E la conversazione collettiva non prevede più sfumature: la destra censura più apertamente, la sinistra più silenziosamente, ma i segnali circa le cose di cui non bisogna parlare sono chiarissimi. E di Woody Allen si può parlare solo in un senso».
Abbiamo passato l’ultimo anno a dirci che dovevamo dare voce a quelle che non avevano potuto rivolgersi ai tribunali, ma qui un tribunale c’è stato, il caso è stato archiviato, e dopo quasi tre decenni sembra che il processo nelle pubbliche piazze non accenni a terminare.
«Le decisioni della legge non hanno nessun peso rispetto alle orde infuriate. Mentre scrivevo ho parlato con una docente di legge di Harvard. Le ho chiesto come fosse possibile che non avesse nessun peso il proscioglimento; mi ha detto: la gente ha diritto di formarsi la propria opinione a prescindere dai tribunali».