Corriere della Sera, 24 settembre 2018
Ilva, in sei anni persi 3,6 miliardi
Ora che l’Ilva ha una nuova proprietà, si può tirare una riga e fare i conti: qual è stato il «prezzo» del commissariamento? La storia dell’azienda è piena di crocevia, colmi di speranze, poi quasi sempre disattese. Il primo bivio fu la scelta del quarto polo siderurgico italiano: dopo Cornigliano, Piombino e Bagnoli, si aprì Taranto. Il secondo bivio risale all’inizio degli anni 90, quando il commissario europeo alla Concorrenza Karel Van Miert costrinse l’Italia a scegliere fra Bagnoli e Taranto. Chiuse Bagnoli. Erano i tempi dell’Ilva pubblica, quella che si chiamava Italsider.
Dall’acciaio di Stato ai privati Messa in liquidazione nell’88, diventa privata nel 1995. Se l’aggiudicano i Riva con un’offerta di 1.649 miliardi di lire (e 1.500 miliardi di debiti, a fronte di un fatturato di 9 mila miliardi e 11.800 dipendenti) superando i rivali del gruppo Lucchini. L’attività marcia fino al 26 luglio del 2012, quando l’acciaieria viene messa sotto sequestro e i Riva arrestati. Le accuse della magistratura di Taranto per i vertici aziendali sono, a vario titolo, di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose. Nel 2013 torna in mano pubblica con il commissariamento, nel 2015 arriva l’Amministrazione straordinaria.
Inizia l’era ArcelorMittalSolo nel 2016 arriva il decreto per la vendita e nel 2017 l’aggiudicazione alla cordata Am Investco, guidata da ArcelorMittal, nata dalla fusione della francese Arcelor e dell’indiana Mittal, con quartier generale in Lussemburgo. E la storia si ripete: Ilva è di nuovo privata.
Per prendere possesso dell’Ilva, però, ArcelorMittal ha dovuto attendere settembre 2018. Non è bastata l’offerta vincente, così articolata: 1,8 miliardi il prezzo di acquisto, 2,4 miliardi di investimenti entro il 2023, di cui 1,25 miliardi per il piano industriale e 1,15 di investimenti ambientali, e un’occupazione per 9.407 unità. L’accordo doveva essere accettato dai sindacati. Il ministro Carlo Calenda del governo Gentiloni ci prova fino all’ultimo, arriva a 10 mila assunzioni, ma il voto del 4 marzo 2018 spazza via il vecchio governo e la palla passa nelle mani del suo successore, Luigi Di Maio. La trattativa si è chiusa il 6 settembre scorso: ArcelorMittal si impegna ad assumere 10.700 lavoratori e ad assorbire, dal 2023, i 3.100 lavoratori che nel frattempo restano in cassa integrazione sotto l’Amministrazione straordinaria di Ilva. Se non accetteranno l’incentivo all’esodo (100 mila euro lordi) il costo complessivo potrà arrivare attorno a 400 milioni. Mentre l’Amministrazione, entro i prossimi 5 anni, dovrà terminare i lavori di bonifica nell’area fuori dallo stabilimento. Ma per fare questo basteranno non più di 400 lavoratori.
Senza padrone per 2.200 giorniQuanto sono costati gli oltre 6 anni dell’Ilva senza padrone in cui sono cambiati 5 governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte), 4 commissari (Enrico Bondi, Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi) e un subcommissario (Edo Ronchi)? Nel 2015 Ilva ha perso 600 milioni, nel 2016 ne ha persi 300, nel 2017 di più, 360, e 200 nei primi otto mesi del 2018. In pratica dal 21 gennaio 2015, inizio dell’Amministrazione straordinaria, a oggi, l’Ilva ha perso 1,46 miliardi di euro. Solo i due anni di ritardo per il passaggio ad ArcelorMittal (inizialmente la gara si sarebbe dovuta chiudere a giugno 2016) hanno pesato per circa 700 milioni. Le perdite relative agli anni 2012-2014 ammontano invece a 2,18 miliardi, ed emergono dai numeri della data room a cui ebbero accesso le aziende che presentarono la prima manifestazione d’interesse. Complessivamente, quindi, le perdite del dopo Riva sono state di 3,6 miliardi. Un salasso dovuto alla riduzione dell’attività a seguito della chiusura dei forni più inquinanti, e una conseguente perdita di mercato.
Il risanamento ambientale Rimane il tema da cui tutto è partito: il disastro ambientale. In questi sei anni si è risanato pochissimo perché non c’erano i soldi. Oggi a disposizione ci sono circa 2,2 miliardi. Chi li mette? Per metà la nuova proprietà, per l’altra i Riva. La Guardia di finanza, grazie al filone milanese dell’inchiesta, nel 2013 trova 1,7 miliardi, frutto di evasione e plusvalenze, nascosti in Svizzera, nell’isola di Jersey e Lussemburgo. Riesce a sequestrare 1,3 miliardi. Denaro che avrebbe dovuto essere investito nella copertura dei parchi minerali e nella gestione dei fanghi velenosi. I fondi, però, arrivano effettivamente nella disponibilità di Ilva solo a giugno 2017: 230 milioni vengono utilizzati per la gestione corrente, mentre i restanti 1.083 milioni sono vincolati al risanamento aziendale. Il più urgente è proprio la copertura di quelle montagne di polvere di carbone e ferro all’aria aperta che, nei giorni di vento, coprono il quartiere Tamburi di Taranto. Per evitarlo, l’Autorizzazione integrata ambientale del 2011 prevedeva che i parchi minerali venissero coperti. I lavori sono partiti solo nello scorso febbraio e si concluderanno nel 2020. Il costo previsto è di 300 milioni ed è a carico della nuova proprietà, ma la somma è stata anticipata dall’amministrazione straordinaria di Ilva con i fondi sequestrati ai Riva.
Il futuro è nei controlliSi potevano evitare gli incalcolabili danni alla salute, il collasso ambientale e quello dell’azienda? La risposta è sì. La responsabilità, in prima istanza, pesa sulle spalle dei ministri dell’Ambiente, della Salute, i governatori della Regione Puglia, Arpa, magistrati, sindacati, che a partire dal ‘95 (anno in cui lo Stato ha venduto l’Ilva ai Riva) avrebbero dovuto imporre l’adeguamento alle norme. Invece, mentre la proprietà accumulava soldi nei paradisi fiscali e a Taranto si moriva, hanno fatto finta di niente. Fino a quando non è più stato possibile.