Corriere della Sera, 24 settembre 2018
La psicologia del Paese in un vuoto settembre di «sconcerto»
A settembre da molti anni la classe dirigente italiana cerca di capire qual è lo stato d’animo collettivo in cui si avvia l’anno di lavoro. Nessuno sa con certezza cosa avverrà nei mesi da ottobre a giugno, ma a tutti sembra giusto prendere atto dell’andamento della psicologia collettiva del Paese. In alcuni anni ci si è sentiti perduti di fronte a un pessimistico «siamo sull’orlo del baratro»; in altri ci si è adagiati in una magari apparente continuità di quel che avviene ed avverrà; in altri ancora ci si è sentiti coinvolti dall’ardore attivistico dei soggetti a più alta vitalità (ricordo gli anni della rampante vitalità delle piccole imprese e degli emergenti localismi industriali). E sempre in questa autunnale presa d’atto della cifra del prossimo futuro, imprese e famiglie hanno trovano spunti ed elementi per le loro strategie d’azione.
Quest’anno le cose vanno diversamente: si può dire che nel convulso rincorrersi di posizioni e sentimenti diversi, si nota un settembre vuoto di interpretazione delle prospettive a medio termine, forse addirittura un settembre «di sconcerto», dove alla perplessità per l’attuale modo di governare si accompagna la sensazione di un insieme di suoni disarmonici e dissonanti. Gli attuali orientamenti dell’opinione pubblica sono sempre più articolati ed ineguali, con una accentuata diversificazione delle chiamate in causa delle scelte politiche.
In questo insieme di orientamenti e di scelte, certo sussiste ancora quell’orientamento al rancore che ha segnato da un paio d’anni la psicologia collettiva del Paese, ma esso sta dimostrando la sua debolezza come strumento del governare e in fondo anche il lento declino di quel che si usa chiamare «forza propulsiva». Restano comunque in campo molti rancori nei sospettosi e vendicativi verso i diversi mondi dell’establishment e delle élite sociali e culturali. Cresce molto la tentazione di rendere vertenziali i rapporti con i poteri sovranazionali, specie quelli comunitari, magari cedendo alla antica propensione a combinare molti nemici e molto onore. Si tende spesso a confondere sotto il vessillo del primato della politica anche la terzietà dei poteri istituzionali e della loro funzione. E il tutto avviene in un molesto rimbombo di parole. Un linguaggio orchestrale non si afferma, vince solo chi si fa un concerto tutto suo, con le sue impressive cabalette ed i suoi acuti squillanti. Con un innegabile aumento dello sconcerto degli spettatori.
Spettatori che certo, da italiani storici amanti della lirica, sono spesso in trepida attesa della cabaletta e dell’acuto, ma avrebbero anche bisogno di una pur rozza interpretazione di quel che sta avvenendo e di quel che di conseguenza si vuole fare. Una volta a settembre gli antichi protagonisti della politica se ne uscivano con un documento (chiamato «preambolo», «nota aggiuntiva», ecc.) che cercava di dare il quadro generale dei fenomeni sul tappeto. Ma il mondo cambia e forse un documento siffatto sarebbe inaccettabile nel giocoso rincorrersi di impegnative dichiarazioni che alimenta oggi la cronaca politica. Ma non sarebbe inutile.