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 2018  settembre 24 Lunedì calendario

Un’ossessione chiamata Dostoevskij

Non si finisce mai di leggere Dostoevskij. Non solo i grandi romanzi e i racconti brevi, di cui esistono numerose edizioni. Ma, ecco qui, in italiano, francese ed inglese, una serie straordinaria di volumi: testi di Dostoevskij o che lo riguardano direttamente o indirettamente: Récits, chroniques et polémiques, a cura di Gustave Aucouturier (Gallimard, 1969), migliaia di pagine, che conducono dal Doppio agli articoli del Tempo: la corrispondenza, tre volumi sino al 1881 (Barillat, 2003) a cura di Jacques Catteau, studioso di qualità eccezionale: la corrispondenza tra Dostoevskij e la moglie (ed. Radouga, 1986); la grande biografia di Joseph Frank (Princeton University Press, 1979-2002); e infine i Carnets della moglie (ed. Radouga, 1986), e il vecchio Dostoevskij marito (Bompiani, 1939). Non c’è limite a Dostoevskij, il quale progetta continuamente nel futuro, come se la sua opera appartenesse esclusivamente a ciò che non esiste.
In primo luogo, ecco le fonti: il libro di Giobbe, il Don Chisciotte, testi di Poe, e di De Quincey: Eugénie Grandet di Balzac, Madame Bovary: la musica ascoltata all’aperto, nei Grandi Giardini d’Estate: Mozart, Beethoven, Meyerbeer: la falsa fucilazione, la vita nella fortezza di Pietro e Paolo; la lettura di Gibbon, Prescott, Jane Eyre; sotto la protezione del pro-pro-pro zio di Vladimir Nabokov, che fingeva di detestare Dostoevskij.
Tutti, in primo luogo gli amici, come Katkov e Maikov, si chiedevano chi fosse Dostoevskij.
Certo, non assomigliava a se stesso: era, sempre e dovunque, un altro; da qualsiasi parte lo si guardasse. Era un uomo solo: distrutto e ossessionato dalla solitudine, e da una insaziabile chiacchiera. Conosceva benissimo la realtà: la conosceva perché era posseduto da un fortissimo senso di colpa.
Lavorava di notte: oppure non dormiva la notte, posseduto dalla scrittura. Non si sentiva mai compreso, sopratutto quando lo era. Ma, qualsiasi cosa scrivesse o dicesse, amava profondamente la vita — sino alla fine dei suoi ultimi giorni, anzi sino all’ultimo momento.
Qualche volta, Dostoevskij appariva in società tra gli uomini distratti, disattenti e falsi.
Camminava lentamente e pesantemente, strascicando i piedi, quasi portasse ancora i ferri che, per quattro anni, lo avevano stretto in Siberia. Pareva un soldato degradato, un malato fuggito dall’ospedale. Gli occhi piccoli e spenti erano ostilissimi, la voce era bassa e sorda, il colorito terreo; e una rete minuziosa di ombre gli solcava il volto. Talvolta arrivava più cupo della notte: non salutava nessuno; posava le mani come secchi pezzi di legno. Si sarebbe detto che preparava un piano d’attacco, con la testa bassa e il viso contorto da una smorfia. Ma sapeva parlare mirabilmente, come Tolstoj. Era un conversatore meraviglioso.
Cominciava a parlare con la voce bassa e rotta, quasi bisbigliando.
Quando si infiammava, una luce dolcissima e seducente gli accendeva il viso; e parlava con una esaltazione crescente, con occhi brillanti e ispirati. E all’improvviso diceva, come il principe Myškin nell’Idiota: «La Bellezza Pura salverà il mondo».
Forse non ci credeva: la Bellezza Pura non esiste — ma mentre pronunciava questa parole conosceva ogni aspetto ed ombra della realtà.
Non sapeva le cause e le origini del suo mal caduco. Ma certo, almeno due volte alla settimana, veniva posseduto da attacchi epilettici, che probabilmente erano cominciati in Siberia.
L’intelligenza impallidiva, la memoria si oscurava, non ricordava il volto delle persone.
Come Leopardi, forse più di Leopardi, conosceva la noia: la terribile noia; e sottolineava la parola terribile. A Ems, dove curava il suo enfisema, soffriva il volto più tremendo della noia: ciò che chiamava cafard. Sentiva di aver commesso una colpa: o, più probabilmente qualcuno l’aveva commessa in suo nome, per lui e contro di lui. Non sapeva mai — noi lo sappiamo — se i suoi romanzi erano riusciti, o un tremendo fallimento.
Aveva bisogno di denaro, che gli mancava sempre, a costo di farselo prestare dagli odiatissimi ebrei. Aveva bisogno di giocare: specie a Homburg, nel nord della Germania; a costo di lasciare la moglie Anna senza un kreutzer.
Vendeva l’orologio, i vestiti, gli orecchini e la pelliccia della moglie. Non c’era altra salvezza che il gioco: nient’altro di positivo. Aveva un solo desiderio: tornare in Russia, a Pietroburgo. Ma anche scrivere era un gioco: sopratutto se congetturava un «gigantesco romanzo» che sarebbe diventato L’adolescenteo I fratelli Karamazov. Invidiava Tolstoj; e specialmente Anna Karenina.
Viaggiava: era dappertutto; Londra, Ginevra, Milano, la caldissima Firenze, soprattutto Dresda.
Verso la fine degli anni Settanta non tollerava più la Germania, la Svizzera e l’Italia; e nemmeno Dresda e le sue rarissime bellezze, care a Bellotto. Anche Ems — la più famosa stazione termale renana, gli sembrava intollerabile, sebbene pensasse che le quotidiane cure termali giovassero alle sue vie respiratorie. Ems era piena di russi, più russi dei tedeschi, che assomigliavano tutti all’imperatore Guglielmo. Si comprò un bastone e due cappelli di feltro. Tutto, in Germania, a Berlino, a Ginevra, a Ems, era letteralmente insopportabile.
L’isolamento lo rese ipocondriaco. All’improvviso il tedio — il tedio che era la sua vera vita — lo possedeva. Voleva ritornare a Pietroburgo, a cui aveva dedicato, fin dalla giovinezza, il suo cuore e il suo spirito. Voleva ascoltare quelle parole russe, leggere quei giornali russi. Gli attacchi epilettici lo assalirono ancora, nella notte e nelle prime ore del giorno, e non poteva difendersi.
Vide e rivide il Cristo al sepolcro di Hans Holbein il Giovane al Museo di Basilea. Rimase a lungo a contemplarlo. Il viso di Cristo era atrocemente sfigurato dai colpi, con occhi dilatati, pupille storte, il bianco degli occhi aperto e scoperto. Quel Cristo — almeno quel Cristo — era irreparabilmente morto, e lui non poteva tollerare la sua espressione di cadavere.
Accadde qualcosa di meraviglioso e terribile. Si liberò dalla paura del gioco: a casa non c’era più nulla, né tè né zucchero, né soldi per pagare il pranzo e l’affitto. Era il tempo di lasciare l’Europa, tornando nel cuore vivo e vibrante della Russia: l’immensa, umida, accecante, ancestrale Pietroburgo, la stessa adorata da Nabokov. Tornò nella città di Pushkin, dove tutti dicevano: «Che c’è di nuovo?» oppure «Che ne dite di questo giorno?». Molti anni prima Dostoevskij aveva sposato Anna Snitkina: «Amica mia, sono dieci anni che sono innamorato di te, e sempre crescendo». «Era il mio angelo custode». Fu, nell’insieme, un matrimonio felice, sebbene Dostoevskij potesse scatenarsi con furore. Le baciava le mani, le carezzava i piedi, con un erotismo ossessivo. «Dimmi, mia cara. Mia luce, mia piccola sorella, dimmi quello che devo fare per guadagnarmi il tuo cuore». La sognava di continuo; e voleva che lei lo sognasse. «Ti stringo tra le mie braccia. Ti abbraccio in immagine tutta intera (capisci?).
Abbraccio le tue mani, i tuoi piccoli piedi!». «Dopo ogni lunga separazione, mi sono innamorato di te, e ti ritrovo ogni volta innamorata». «Ti stringo tra le mie braccia e ti abbraccio, te e le tue care mani, i tuoi piccoli piedi (che tu non mi permetti di abbracciarti)». Anna sognava il marito, sempre più triste e angoscioso, come se avesse peccato anche lei senza saperlo.
Di solito Dostoevskij si svegliava molto tenero, nel cuore inoltrato del pomeriggio. Sullo sfondo stava Tolstoj, il quale pensava che Anna fosse la migliore delle mogli. La vita comune non durò a lungo.
Nella notte dal 25 al 26 gennaio 1881 del calendario giuliano Dostoevskij cadde a terra.
La mattina del 28 gennaio si accorse subito che sarebbe morto, sotto il segno di un versetto di Matteo (3, 15). Disse a Anna: «Sono tre ore che non dormo, e credo, e ora sono certo, che morirò oggi».
Morì alle 20.30 del 28 gennaio 1881.