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Il chirurgo: «Così ho dato un volto nuovo a quella donna ora spero in un contratto vero»
È un precario da 2mila euro lordi al mese uno dei medici che hanno condotto l’intervento chirurgico più importante degli ultimi anni in Italia. Niente contratto a tempo indeterminato ma voglia di aiutare i pazienti a ricostruire parti del loro corpo e della loro vita. In questo caso, per la prima volta da noi, si è trattato della faccia. Benedetto Longo, quarantunenne di Crotone, ha lavorato in équipe con tanti altri chirurghi e con il professor Fabio Santanelli di Pompeo, primario di chirurgia plastica al Sant’Andrea di Roma. «Lui era il team leader del prelievo, io del trapianto, ma abbiamo collaborato continuamente». Le condizioni della paziente sono buone ma ci vorrà tempo per capire se l’operazione è andata bene.
Perché è stata difficile questa operazione?
«Intanto per arrivarci c’è voluto uno sforzo organizzativo enorme, che ha coinvolto decine di persone, non solo noi che siamo entrati in sala.
Poi, dal punto di vista della tecnica chirurgica, stiamo parlando dell’intervento più complesso che esista in medicina, perché si lavora su strutture che hanno vasi sanguigni piccoli».
Come si procede?
«Prima vanno preservati i vasi più importanti e poi li si deve attaccare al ricevente. Bisogna anche connettere muscoli, ossa, tendini, cute, palpebre, naso, bocca».
Come vi siete preparati?
«Dal punto di vista tecnico ci vogliono venti anni di esperienza. Poi ci sono i vari passaggi burocratici, come la richiesta al Consiglio superiore di sanità di partire in via sperimentale. Infine va organizzato il lavoro di tutto il personale».
Quando può diventare frequente questo trapianto?
«I centri all’avanguardia non ne fanno più di uno all’anno. Ad Harvard, ad esempio, negli ultimi 8-10 anni ne hanno fatti 7».
In questi anni ci sono state opposizioni alla donazione della faccia della persona cara dopo il decesso. Perché?
«Gli altri trapianti riguardano organi che non si vedono. Qui scatta il timore di trasferire le caratteristiche somatiche da una persona ad un’altra».
E questo non avviene?
«No, perché è diversa l’impalcatura sulla quale si appoggia il viso prelevato. Certo, abbiamo anche trapiantato pezzi di osso ma vengono adeguati alla struttura del ricevente. Il risultato comunque è una fisionomia diversa sia dal donatore che dal ricevente. La nostra paziente era stata preparata anche psicologicamente al cambiamento».
L’intervento è durato quasi 28 ore. Ha avuto bisogno di riposarsi ogni tanto?
«A dir la verità io sono rimasto in ospedale 60 ore, praticamente da quando è arrivata la potenziale donatrice a dopo il ricovero in terapia intensiva della trapiantata.
È stata dura ma l’adrenalina di situazioni come queste ti fa restare iper vigile per tutto il tempo».
Ci sono stati momenti più difficili degli altri?
«Tecnicamente è stato difficile dal primo all’ultimo minuto. Ci sono strutture più complesse di altre da connettere ma si sta sotto pressione tutto il tempo. Anzi, lo siamo ancora perché ci sono una serie di problemi post intervento da gestire bene, come i rischi di rigetto o di complicanze. Comunque siamo abituati alla pressione».
Lei è ancora precario?
«Sì, da dieci anni ho contratti da 12 mesi al Sant’Andrea. Guadagno 25 mila euro lordi l’anno per cinque giorni alla settimana di lavoro proprio sul progetto di trapianto della faccia. Per crescere i miei figli faccio anche attività privata. Ma non svolgo questo mestiere per il posto fisso. È una passione e poi la cosa più importante è la soddisfazione dei pazienti».
Certo, ma dopo un trapianto del genere non vorrebbe essere finalmente assunto?
«In effetti non so cosa devo fare ancora per interrompere il precariato».