La Stampa, 24 settembre 2018
Stefano Mauri e i troppi libri pubblicati in Italia. Intervista
Stefano Mauri è l’amministratore delegato e il presidente di Gems (Gruppo editoriale Mauri Spagnol), che raggruppa 16 case editrici, uno dei tre maggiori gruppi italiani. Un interlocutori ideale a cui girare la questione sollevata dalla Stampa.
Mauri, perché questo tsunami di titoli che si abbatte sulle librerie disorientando i lettori?
«Come ci ricordava il compianto Cesare De Michelis, le prime lamentele degli umanisti relative a un eccesso di produzione libraria risalgono al Rinascimento, all’indomani dell’invenzione della stampa. Settantamila novità in Italia (quasi tutte di varia) certamente sono un numero impressionante. Ma se si pensa che sono meno dei libri pubblicati in Germania o in Inghilterra o in Francia, e che ogni anno in Europa si pubblicano circa 500 mila nuovi titoli si capisce che si tratta di una sovrapproduzione fisiologica».
Ma non potreste semplicemente essere più selettivi?
«Lo siamo già. Diciamo no a tremila manoscritti prima di pubblicare un libro. Abbiamo risanato negli anni molte case editrici. In tutte abbiamo ridotto il numero di novità per migliorare la qualità. Il risultato è che i nostri 16 marchi, tutti autonomi e di dimensione artigianale, assieme raggiungono il 10 per cento di quota di mercato, ma pubblicano solo il 2 per cento dei titoli. La nostra tiratura media è di migliaia di copie e non di 180, anche se Trilussa impera: ci sono titoli che vendono 500 copie e titoli che superano il milione».
Non dovrebbero fare tutti così?
«Molte pubblicazioni nascono dal desiderio di lasciare una testimonianza che duri nel tempo, non dall’attesa che qualcuno la voglia davvero ascoltare. Mi è capitato spesso di rifiutare libri raccomandati perché non interessanti per i lettori. Li abbiamo poi visti pubblicare da altri (senza successo). Ci sono nuovi editori che vogliono tentare l’avventura, ci sono tanti dilettanti che fanno (anche) gli editori in perdita, perché è un mestiere affascinante. E infine c’è il self-publishing che di questi tempi moltiplica ulteriormente le novità pubblicate senza alcuna selezione. Questo rende sovrabbondanti le pubblicazioni rispetto alla domanda. Alcuni grossi successi sono partiti con tirature irrisorie, perché il nuovo a volte non viene immediatamente compreso. Per alcuni editori è una scusa per fare i cecchini ciechi. Harry Potter ha esordito in Inghilterra con cinquemila copie. Oggi ha superato il mezzo miliardo di copie vendute nel mondo. Ma noi lo abbiamo scelto per primi tra mille e ci abbiamo creduto subito».
C’è qualche possibilità di invertire la rotta?
«Ne dubito. Perché se da una parte il mercato non cresce, e dunque ci si dovrebbe aspettare una riduzione di risorse e quindi di titoli nuovi, dall’altra il digitale moltiplica le fonti di ricerca per gli editori, le nicchie e i canali, rende possibili tirature più limitate e attraverso i motori di ricerca e l’e-commerce, grazie al fatto che il nostro settore ha una antica tradizione di catalogazione, rende facilmente accessibili tutti i titoli. I responsabili delle pagine culturali e dei supplementi hanno tutta la mia solidarietà. Ma come dire: quando sul lavoro si incontrano dei problemi, in fondo è una buona notizia. Siamo lì per risolverli. È proprio questo che i lettori chiedono ai giornalisti culturali, a noi editori, ai librai: aiutateci a scegliere!».
Che cosa ha in mente un grande editore per fronteggiare la guerra con Amazon?
«In linea di massima un editore non ha ragioni a priori per essere in guerra con Amazon, dato che è un suo cliente. Qualora scopra pratiche illegali deve intervenire presso le sedi istituzionali. E fare il possibile per evitare che diventi in qualche segmento del mercato un monopolio. Direi comunque che deve essere una preoccupazione delle altre piattaforme più che degli editori. Questo non toglie che vi possano essere attriti. Che alcune scelte di Amazon sono discutibili: come l’opacità sui dati o l’elisione del nome dell’editore dalla descrizione bibliografica al primo clic. Alcuni libri hanno una domanda meno elastica di altri. Fattori che concorrono a determinare la dialettica che porta a sconti differenti, mentre le piattaforme Usa in genere tendono a semplificare».