La Stampa, 24 settembre 2018
Addio al pesce italiano: l’80% arriva dall’estero
Il pesce, si sa, è per definizione muto. Ma se potesse parlare, scopriremmo che non parla più italiano. Negli ultimi 25 anni, mentre la nostra flotta peschereccia perdeva progressivamente pezzi, passando da oltre 18.000 a circa 12.500 imbarcazioni, e i posti di lavoro calavano di 18mila unità, le importazioni crescevano di pari passo con l’aumento del consumo di pesce (che oggi si attesta a 28,9 kg pro capite), lievitando all’attuale 79%.
La realtà fotografata dalla Coldiretti sulla base dei dati Istat è sorprendente per una nazione che vanta quasi ottomila chilometri di costa e una gloriosa tradizione marinara: nei mari italiani si pescano oggi 180mila tonnellate di pesci, mentre le importazioni ammontano a oltre un milione di tonnellate (erano 582mila nel 1993, +84%), compresi prodotti congelati, essiccati e preparazioni, con Spagna, Paesi Bassi e Grecia sul podio dei Paesi esportatori e il 40% in arrivo da Paesi extra Ue. La quota del fresco ammonta a 290mila tonnellate. Al primo posto tra i prodotti stranieri ci sono seppie e calamari (135mila tonnellate), seguiti dalle conserve di tonno e gamberetti. Una situazione in cui, secondo Coldiretti, il rischio principale sono gli inganni in agguato al ristorante dove «mangiamo il 50% del pesce che consumiamo» e dove, contrariamente a pescherie e supermercati, non esiste obbligo di indicare la provenienza.
«Serve un’etichetta d’origine anche sui menù, una vera e propria “carta del pesce”» chiede l’associazione, che mette in guardia anche da truffe e contraffazioni, perché «il prodotto proveniente dall’estero ha meno garanzie rispetto a quelle Made in Italy: basta pensare al pangasio del Mekong venduto come cernia, al polpo del Vietnam spacciato per nostrano o allo squalo smeriglio venduto come pesce spada». E senza considerare il congelato contrabbandato come fresco o l’estero come nazionale. I risultati dei controlli certificano che il rischio di ritrovarsi a tavola prodotti «truccati» esiste, nonostante in Italia i controlli, dalle frontiere fino alle Asl, siano rigorosi. Nel corso del 2017 le Capitanerie di porto hanno effettuato 21.112 verifiche lungo tutta la filiera, rilevando 2.814 illeciti, più del 13%.
Le insidie delle etichette
Un focus dei carabinieri del Nas conferma che le irregolarità esistono e non solo sull’import: dal gennaio 2017 al giugno 2018 su 2.476 controlli effettuati sono state riscontrate 697 situazioni di «non conformità», circa il 27% (ristorazione esclusa), con 310mila kg di prodotti sequestrati e 70 strutture chiuse. Le irregolarità penali (237 i denunciati) vanno dalla tentata frode in commercio (pesce congelato venduto come fresco o in cattivo stato di conservazione) fino alle lesioni per aver somministrato ai clienti prodotti infestati dalla larva dell’anisakis o contaminati da istamina, sostanza che si sviluppa nel pesce vecchio o mal conservato e che può provocare una reazione allergica nota come “sindrome sgombroide”.
«Il 70% delle infrazioni - spiega il maggiore Dario Praturlon - riguarda aspetti amministrativi: le violazioni più frequenti sono carenze igieniche, mancanza di tracciabilità, che a volte nasconde anche il fenomeno del mercato clandestino o la pesca di frodo, e l’irregolarità dell’etichettatura». Gli esempi non mancano: nell’aprile 2017 i Nas di Milano denunciarono due dipendenti di un’azienda importatrice «perché sorpresi a sostituire etichette di prodotti provenienti dal Marocco per differire la data di confezionamento».
Giuseppe Palma, medico veterinario e segretario generale di Assoittica, che rappresenta circa 100 aziende italiane con un fatturato di cinque miliardi di euro e tremila dipendenti, invita però a evitare allarmismi: «Non esiste Paese al mondo in cui ci sia maggior qualità dei controlli: io dico sempre che i sequestri ci sono perché ci sono gli accertamenti. Un rischio reale non c’è. Tutta l’Europa importa: il pesce importato offre maggiore varietà, servizio e prezzi calmierati. Uno dei problemi principali non è la mancanza di pesce nostrano, ma che sono cambiate le abitudini alimentari degli italiani . Il pesce fresco va pulito, puzza, va consumato in fretta, e il consumatore si rivolge sempre di più verso un “prodotto con servizio”: pulito, sfilettato. I nostri pescatori preferiscono invece venderlo fresco “tal quale”».
La crisi delle risorse ittiche
«Tutto è cambiato alla fine degli anni Ottanta, quando ci si è resi conto che le risorse ittiche non erano inesauribili, anche perché non c’eravamo solo noi, spagnoli e francesi a farla da padroni, ma erano cresciuti i Paesi del Nordafrica e quelli balcanici» racconta Tonino Giardini, direttore generale di Coldiretti Impresa Pesca. Per evitare lo spopolamento del mare (oggi il 70% delle risorse del Mediterraneo è in crisi) la prima risposta è stato il fermo pesca, che in questi giorni tiene a terra le barche su Tirreno e Ionio (da Brindisi a Roma), riducendo la quantità del pescato italiano. Il passo successivo sono stati gli incentivi alla rottamazione dei pescherecci, che hanno contratto drasticamente la flotta: l’ultimo provvedimento per il 2014-2020 si è chiuso il 31 dicembre 2017, con il ritiro di 220 imbarcazioni, in maggior parte a strascico.
«Ma l’obiettivo della sostenibilità ambientale non è stato raggiunto - osserva Giardini - E ora servono politiche di promozione per ricordare che la produzione italiana, sottoposta a vincoli di tempi e strumenti, rispetta l’ambiente». E la stagionalità contro le “mode” alimentari: «Questo è il periodo delle triglie: costano poco e sono ottime. Le seppie, per esempio, vanno acquistate tra marzo e aprile. Bisogna alfabetizzare i consumatori, che conoscono e mangiano poche specie». La Federpesca sta lavorando a protocolli di tracciabilità volontaria per evitare, dice il presidente Luigi Giannini, «di perdere ulteriori pezzi». «Siamo rimasti la Cenerentola. La situazione odierna è inaccettabile, frutto di un’operazione fallimentare che promana dall’Unione europea per incentivare in ogni modo l’abbandono del settore - accusa - Ma è stato un sacrificio unilaterale, perché alla riduzione di capacità di pesca italiana si è sostituita quella di altri Paesi rivieraschi, dove le flotte sono cresciute» in mancanza di regole tanto stringenti. Gilberto Ferrari, direttore di Federcoopesca, concorda: «Siamo troppo bravi in una realtà in cui Paesi amici che non lo sono. E così ci ritroviamo a proteggere il nasello e il gambero nel Canale di Sicilia mentre magari Tunisia ed Egitto li pescano al posto nostro».
Uno scenario in cui il futuro sembra rappresentato dall’acquacoltura, che oggi produce circa 140mila tonnellate annue: «Il 50% di pesce importato viene dall’acquacoltura - fa notare Pier Antonio Salvador, presidente dell’Associazione Piscicoltori Italiani - e se non possiamo far crescere la pesca è questo il settore che dobbiamo sviluppare». L’Italia vanta alcuni primati: è il primo produttore europeo di trote, come di vongole, il secondo produttore al mondo di caviale dopo la Cina: «Dobbiamo solo rassicurare i consumatori che mangiare i prodotti di acquacoltura è sicuro perché la qualità dei mangimi è sottoposta a regole severissime».