Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2018
Storia del calcio in radio
C’è stato un tempo in cui il portiere poteva riprendere con le mani il retropassaggio del difensore e il contropiede non era ancora diventato ripartenza. Un tempo in cui il calcio era identità di campanile e i calciatori più rappresentativi non cambiavano maglia o pettinatura. Il “campionato spezzatino” delle pay tv era qualcosa di neanche lontanamente immaginabile, perché il pallone era un piatto da servire caldo, ogni domenica pomeriggio, rito collettivo postprandiale da vivere sui gradini di uno stadio a bere Borghetti, in famiglia o al bar con gli amici.
Anni di calcio ascoltato prima ancora che visto perché alle 15.15, con tempismo perfetto rispetto alla fine dei primi 45 minuti di gioco, partiva il tema di A Taste of Honey, nella versione latin jazz di Herb Alpert & Tijuana Brass: il tema di Tutto il calcio minuto per minuto, una tra le più longeve trasmissioni di Radio Rai che, quasi mezzo secolo prima dello strapotere televisivo, rappresentava la fonte privilegiata di approvvigionamento notizie per l’Italia pallonara, programma di culto capace di aggregare, negli anni d’oro, qualcosa come 25 milioni di radioascoltatori. La sua storia – o forse dovremmo dire la sua leggenda – rivive nel libro Radiogol. Trentacinque anni di calcio minuto per minuto, scritto da Riccardo Cucchi che, dai primi anni Ottanta al 2017, è stato uno dei protagonisti di quella stagione. Radiocronista di “seconda generazione” rispetto ai pionieri della trasmissione, agli Enrico Ameri, Sandro Ciotti ed Ezio Luzzi, Cucchi ha avuto in sorte di lavorare braccio a braccio con queste figure mitologiche dell’immaginario pop, ne ha studiato le tecniche, raccolto confidenze e osservato tic. E in quest’opera, a metà tra la ricostruzione storica e il memoir, apre al pubblico uno scrigno di segreti accumulati in 35 anni di attività.
È Ameri, per esempio, a raccontargli la prima puntata di Tutto il calcio, lui che ne era stato parte. Prima di quel fortunato format, esisteva soltanto la voce di Nicolò Carosio che si concentrava sulla partita di cartello. Gli anni del boom economico e, soprattutto, l’imminente avvento delle Olimpiadi di Roma 1960 incoraggiavano gli esperimenti: il capo della redazione sportiva Rai Guglielmo Moretti decise di sfidare gli «ingegneri» dell’emittente statale, mettendo per la prima volta in collegamento tre campi, con la conduzione di Roberto Bortoluzzi. Il nome del format lo inventò un certo Sergio Zavoli, all’epoca a capo della redazione cronache. Le prime tre partite trasmesse in contemporanea furono Milan-Juventus affidata a Carosio, Bologna-Napoli con Ameri e Alessandria-Padova con Andrea Boscione. Si narra che Carosio, uomo nato in età giolittiana, testimone delle vittorie azzurre ai Mondiali del ’34 e del ’38, ne fece quasi un caso di lesa maestà. Piccolo particolare: le interruzioni, piatto forte di Tutto il calcio, erano severamente vietate. Per abbattere questo muro ci volle l’irruenza di Ameri: «Un bel giorno – racconta a Cucchi – decisi che era il momento: segnarono un gol sotto i miei occhi quando non ero collegato, dissi al tecnico di aprirmi, lui strabuzzò gli occhi ma lo fece». Fu il primo di quegli «Attenzione, attenzione!» che hanno fatto la fortuna del programma. In Rai erano scandalizzati. Ci misero un po’ a comprendere che era nato un genere.
Cucchi ci accompagna per mano in una specie di galleria di ritratti di uomini illustri cui tutti i calciofili italiani hanno voluto bene. C’è l’eterna rivalità tra Ameri e Ciotti. Il primo è un professionista integerrimo di area moderata, quasi un asceta che va a messa e mangia riso in bianco prima di raggiungere lo stadio con largo anticipo per non trovare traffico. Per lui la radiocronaca è una cosa semplice: «Devi raccontare quello che vedi. Tutto». Il secondo è un intellettuale raffinato, ama calcio, donne, musica e buona tavola. Un irregolare, quasi un artista, maestro dell’improvvisazione: «Porta sempre con te uno zaino ideale, pieno di termini di scorta. Quando ne avrai bisogno saprai scegliere quello giusto». Due mondi inconciliabili, accomunati dalla passione per lo scopone, come milioni di italiani della loro generazione. C’è Luzzi che agli Europei del ’96 in riunione mette in guardia i colleghi dagli errori di geografia, perché «il mondo è cambiato» e la Repubblica Ceca non deve essere assolutamente chiamata Cecoslovacchia. E con grande onestà intellettuale ammette di essere stato lui a commettere quell’errore. C’è l’infaticabile Alfredo Provenzali e Mario Giobbe che si preoccupa di formare una nuova generazione di radiocronisti cui lasciare il testimone. Partendo da una regola: «Più breve sei, più bravo sei». Non è amarcord, ma un viaggio sentimentale che passa attraverso lo scudetto della Lazio di Chinaglia vissuto da tifoso e quello della Lazio di Eriksson da cronista, il gol di Grosso alla Germania, il Milan di Ancelotti e l’Inter del Triplete, il ritorno in A della Juventus del dopo Calciopoli e i piedi di Maradona, «l’essenza del gioco del calcio, la sua trasformazione in arte». Con due consapevolezze di fondo: il calcio «genera inguaribili romantici» mentre la radio «è una straordinaria fabbrica di sogni». Che trovano una sintesi: «Una voce che cerchi di emergere sul boato del pubblico per gridare rete continuerà a essere, per ogni appassionato, l’essenza vera del gioco del calcio».