Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2018
Una nuova edizione critica dei sonetti di Gioacchino Belli
Nikolaj Gogol’ arrivò a Roma il 13 marzo 1837, festosamente accolto dai tanti connazionali che da tempo si erano stabiliti nella capitale degli Stati Pontifici. Aveva già una passione ingorda per l’Italia. Tutta la penisola è «un boccone da ghiotto», scriveva nel suo italiano: da nutrirsene «a creppagozza». Ma Roma gli si offrì come una leccornia. E lui non mancò di gustarsela con una grazia del tutto disinibita. Appena un anno dopo dedicò alla città il frammento di un racconto, dapprima intitolato Annunziata; e poi Roma, in omaggio all’ambientazione sotto la luminosità del cupolone, tra le più belle delle piazze, tra le scalinate e le terrazze del Monte Pincio, e persino lungo i vicoli cupi con le botteghe dei tagliabarbe e dei cappellai, in mezzo al popolo («ancora intatto»: di una primitività non «toccata» dalla storia, come nell’opera di Belli) e i «pittorici reggimenti di monaci», abati in tricorno, o cardinali «in carrozza purpurea». Le donne vi compaiono «simili agli edifici d’Italia: erano o palazzi, o stamberghe, o beltà, o mostri»; e una scena compongono, alla maniera del Belli, affacciate alle finestre, curiose e ciarliere: sono «le s’ore Grazie, le s’ore Susanne, le Barbarucce, le Tette, le Tutte»; e «la povera s’ora Cecilia … quasi rovesciata del tutto, dalla finestra, sulla via».
Nel 1838, Gogol’ aveva conosciuto Giuseppe Gioacchino Belli. L’aveva incontrato nel salotto romano della pricipessa russa Volkònskaja, dove accadeva spesso che un poeta andasse a leggere i propri versi. Gogol’ ne scrisse immediatamente alla signora Balàbina, sua ex alunna: «… probabilmente non v’è capitato di leggere i sonetti del poeta romano Belli che, d’altronde, vanno ascoltati dalla sua viva voce. In essi, nei sonetti, c’è tanto sale e tanta arguzia, davvero inaspettata, e si riflette così fedelmente la vita degli attuali abitanti di Trastevere, che ne riderete … Sono scritti in Lingua romanesca, non sono stampati ma ve li manderò». Lo stralcio di lettera è stato pubblicato da Serena Prina nel Meridiano dedicato alle Opere di Gogol’ (1994).
L’anno appresso, Gogol’, durante un viaggio in nave da Roma a Marsiglia, incontrerà Sainte-Beuve. Anche a lui racconterà la sua scoperta letteraria. Sainte-Beuve appunterà la conversazione nel suo diario. E la pubblicherà nel 1845 in una recensione ai racconti di Gogol’: «Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: si chiama Belli (o Beli). Gogol’ lo conosce e me ne ha parlato a fondo. Scrive sonetti in dialetto trasteverino, ma dei sonetti che si legano e formano poema: sembra che sia un poeta raro nel senso serio del termine, pittore della vita romana. Gogol’ mi ha parlato d’un dialogo tra una madre e una figlia dalla finestra, molto buffo. Non pubblica, e le sue opere restano manoscritte. Sui quaranta: piuttosto malinconico di temperamento, poco estroverso».
La nota di Sainte-Beuve apre adesso l’introduzione di Pietro Gibellini alla sontuosa edizione critica dei Sonetti del Belli nella collana I Millenni di Einaudi. Ai quattro massicci volumi hanno collaborato il compianto Lucio Felici e Edoardo Ripari. Il commento è puntuale, completato dalle note esplicative dello stesso Belli e da ricche schede di lettura. A chiusura del tutto è posta un’Appendice che comprende un Apparato delle varianti, i Sonetti incompiuti e le Poesie romanesche in altro metro. Il prezioso corredo illustrativo (scelto con rigorosi criteri storici) dà immagine artistica alla Roma dei Sonetti. È un’edizione splendida, questa. L’aspettavamo da tempo, da quando Gibellini l’annunciò nel 2012 nella nota bibliografica dei belliani Sonetti erotici e meditativi pubblicati da Adelphi. Si ha finalmente l’occasione di ripensare l’opera di uno dei massimi poeti dell’Ottocento: l’unico che poteva dialogare con Porta (di cui rifece in romanesco quattro sonetti), stando accanto a Manzoni e Leopardi.
I resoconti di Gogol’dicono più di quanto non sembri. Intanto la recita pubblica dei sonetti, e la disponibilità dell’autore a far circolare fra gli spettatori dell’azione mimica le copie manoscritte dei testi (Gogol’ ne promette un mucchietto alla signora Balàbina), impongono una interpretazione più sofisticata della clandestinità cui il Belli volle condannare il suo capolavoro negato alla stampa e destinato ai posteri. Belli non tentò mai di forzare la tolleranza che tutto sommato le autorità censorie gli concedevano, permettendogli la pubblicazione orale nei salotti e la distribuzione di fogli manoscritti. L’autocondanna poteva essere una escogitazione geniale e azzardata; un’astuzia letteraria, e anche la manifestazione di una libertà talmente orgogliosa da non accettare di sottoporsi all’approvazione delle autorità. Dichiarava implicitamente la predilezione per la poesia detta, in coerenza con l’estro teatrale e l’impostazione intensamente parlata dei versi. E conferiva ai sonetti un’aura di proibito: un aroma di zolfo, una marcatura di denuncia nella città del potere teocratico del papa-re, l’additamento della terribilità dolorosa di una città che si offriva come «stalla» e «chiavica der Monno», l’evidenziazione della «Verità sfacciata», intrattenibile come la diarrea, e debordante, che il silenzio imposto (o autoimposto) rendeva rumorosamente eloquente. La clandestinità era un sacrificio (esibito) che rendeva più esplosivo quell’ordigno che Belli presentava come un «poema» enorme fatto di duemiladuecentosettantanove sonetti e trentamila versi. È vero che, nell’Introduzione ai Sonetti, Belli fa di ogni singolo componimento un quadretto distinto, autosufficiente, per cui «ogni pagina è il principio del libro: ogni pagina è il fine»; ma aggiunge che esiste un «filo occulto della macchina» che tutte le singole parti cuce e fa entrare in un insieme significativo.
«Ecco il mio scopo», dice Belli: «Io non vo’ già presentare nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia poesia». Si impegna a offrire un «monumento», cioè un documento «di quello che oggi è la plebe di Roma». Convoca così i suoi triviali plebei, sconci e blasfemi, a recitare in «una commedia a bbraccio» che le iperboli delle rudimentali lussurie e l’empia parodia della sacralità trasformano in un incubo grottesco: surreale e visionario. Viene inscenato un inferno della miseria e della degradazione bestiale, che è un imbuto di crapula e foia, il «pozzo de la gola e dde la freggna», dentro cui tutto «sse priscìpita in eterno». Nel fondo, stagna una palude Stigia: un «brodo de pulenta», un infettivo guazzetto batterico. Questo è il regno del «cazzimperio», dove la pudicizia è chiamata «puttaniscizzia» e il «cortello arrotato» fa coppia, nella saccoccia, con il rosario. Ha due divinità totemiche: un priapico «padre de li Santi» e una vulvare «madre de le Sante», che profanano la santità della Chiesa e della Madonna (Manzoni, La Pentecoste: «Madre dei Santi; immagine della città superna»). Del resto il diavolo è un «povero cristiano» e «sante» sono le «pene de l’inferno». Tutto è ambivalente, nei Sonetti, a partire dalla stessa satira: «Colpendo a un tempo il potente e il suddito che protesta contro di lui, il ricco e il mendicante che gli chiede la carità, lo sfruttatore e chi lo sfrutta» (Gibellini).
La chiave di lettura più suggestiva dei Sonetti è in un’annotazione di Landolfi su Gogol’ e Belli: «Bisogna riferirsi a quel qualcosa da spartire che gli stessi sembrano avere in una diversa dimensione, a quel convenire di immaginativa ed espressione, a quel qualcosa (per tenere un linguaggio da caffè letterario) di surrealistico, che chiunque abbia la menoma dimestichezza colle rispettive opere non può aver mancato di rilevare. Insomma nella partita quello che soprattutto importa è l’enormità o eccessività di talune figurazioni, è (dicendo ancor più chiaro) l’aspetto di ossessi, non tanto occasionali, dei due; e naturalmente vogliamo accennare ad alcuni tra quei sonetti del Belli che non potrebbero trovar posto nelle antologie scolastiche o nelle biblioteche rosa, e a qualche lungo o intero racconto di Gogol’ tra i più improvvisi e abbaglianti. Sicché qui un’indagine veramente utile dovrebbe essere stilistica: chi per esempio, davanti a una di quelle strabilianti immagini del primo o del secondo non ha talvolta fantasticato di influenze reciproche o di priorità?» (Gogol’ a Roma e I Russi, Adelphi 2002 e 2015).