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 2018  settembre 23 Domenica calendario

Intervista ad Amedeo Pagani

Nella sua vita c’è tragedia (“ho assistito alla morte di Angelopoulos”); commedia all’italiana (“come Mastroianni che controllava la Deneuve”); goliardate da cine-panettone (“grazie a una foto della Muti mi sono salvato dalla polizia”); avventura (“i miei viaggi? Anche in auto da Roma a Kabul”). Quindi amicizia, amore, politica, crolli finanziari e successive riprese. Sesso, arte, famiglia (“per anni sono stato sposato con Barbara Alberti. E oggi viviamo insieme”).
Amedeo Pagani, storico sceneggiatore e produttore, è il cinema perenne, quello artigianale, costruito fotogramma su fotogramma, quando la vita entra pirandellianamente in scena e con essa convive in armonia. Si siede e subito accende una sigaretta.
Quante ne fuma?
Venti.
Sempre?
Sul set molte di più.
Da sempre. 
Ho smesso una sola volta e per una settimana (sottolinea l’arco temporale come se quei sette giorni fossero durati un’eternità); poi sono tornato sul set con quel pazzo di Zhang Yimou (Oscar con Lanterne rosse): lui ne fuma 60 al giorno. Ho ceduto. Quando lavoro è così, la sigaretta mi calma.
Il cinema.
Non è per imprenditori, ma per artigiani, e basta con questa prosopopea di definirlo un’industria. Non lo è.
Sicuro?
Non c’è un capitale, ma degli sciagurati che amano questo mestiere e si avventurano sul nulla.
Ancora oggi?
Meno di ieri, ci sono dei veri professionisti, ma la struttura produttiva resta fragile.
Ha conosciuto dei “bassi” molto accentuati…
Ho preso delle belle botte, alcune ingiustificate come con Cronaca di una morte annunciata, e solo per una questione politica.
Perché?
Quell’anno Márquez aveva vinto il Nobel, Rosi era il regista. Tutti e due socialisti. A un certo punto alcuni politici mi chiamano per ottenere dei finanziamenti a favore della carriera politica di un signore targato garofano: volevano candidarlo a sindaco di Roma.
E lei?
Gli ho risposto: siete pazzi. Subito dopo sono saltati i contratti. E ne avevo con tutta Europa.
I conti economici li sa gestire?
Sono negato.
Soluzione?
Delego: la questione amministrativa mi è aliena e antipatica.
La politica l’ha incrociata spesso?
No, ma altro capitolo sono le banche: produco La domenica specialmente, un film di Tornatore fresco di Oscar, con protagonisti Philippe Noiret e Ornella Muti, coinvolta anche la Miramax di un Weinstein agli albori.
Weinstein ovunque.
Mi chiede di coinvolgere la Titanus. Accetto. Non l’avessi mai fatto. Era piena di debiti, e siccome l’accordo era al cinquanta per cento, la banca ha sostenuto che ero solidale. E ho pagato.
Da cosa parte il suo giudizio per un nuovo film?
Dalla storia. Come per le pagine di Bechis dedicate a Garage Olimpo. Una folgorazione. Ma io arrivo dalla sceneggiatura, la lettura è la base, è lì che iniziano le mie fantasie, e tramuto le parole scritte in immagini mentali.
Lei nasce sceneggiatore…
E ci sono arrivato da sciagurato insieme a Barbara.
Come?
Tornavo dagli Stati Uniti dove avevo vinto una borsa di studio, lei già scriveva. Un giorno ci guardiamo: “Il nostro prossimo passo?”. Silenzio per lungo tempo. Poi scopriamo I fiori blu di Raymond Queneau con traduzione di Italo Calvino: decidiamo di realizzarne una sceneggiatura, ma appena finito quel lavoro volontario, non sapevamo come utilizzarlo.
Soluzione?
Cambiamo i soldi, prendiamo un bel mazzo di gettoni, entriamo in una cabina telefonica, chiamiamo Gallimard a Parigi: “Buongiorno, cerchiamo Queneau, abbiamo scritto una sceneggiatura”.
Semplice, no…
Risposta: “Che bello! Venite qui, vi porto in tutti i posti citati dal romanzo”. Partiamo. E veniamo accolti nel suo appartamento, stupendo, un luogo da vero letterato: il tavolo centrale aveva le zampe composte da pile di libri; libri ovunque. Quindi ci traghetta per le vie della città fino a presentarci lo stesso Calvino.
Risultato?
Torniamo a Roma con i diritti sull’opera, e appena rientrati scoppia la riffa, con i produttori e i registi scatenati per acquistarlo, e non persone qualunque, i nomi più alti dell’epoca: da Monicelli a Fellini, con Marlon Brando protagonista. Noi intanto incassiamo 150mila lire, per i tempi una cifra colossale.
Il film non esiste.
Mai realizzato, ma intanto io e Barbara avevamo incassato e soprattutto eravamo entrati nel mondo del cinema, coinvolti ogni sera per l’aperitivo delle sette quando i grandi registi, scrittori, produttori si ritrovavano in un paio di locali e altrettanti appartamenti del centro di Roma.
Ugo Pirro lo racconta ne “L’osteria dei pittori”.
Infatti c’era anche lui. Comunque alle sette ci ritrovavamo con Age, Scarpelli, Nanni Loy, De Bernardi, e tanti altri; accettavano due ragazzini come noi e con una disponibilità assurda. Ti accoglievano e proteggevano, erano attenti alle idee, ogni spunto ben accetto.
Argomenti principali?
Molta politica cinematografica, in particolare la divisione tra comunisti e socialisti, con liti importanti, dure, lunghissime, argomentate. Periodo irripetibile, chiuso con gli anni bui del terrorismo.
Lei, era?
Socialista. E molti socialisti, come Scarpelli ed Ettore Scola, poi sono passati al Pci.
Convenienza o convinzione?
Allora essere più a sinistra era quasi un dettato.
Con voi anche Fellini?
No, lui viveva isolato, da sognatore, rinchiuso mentalmente e fisicamente tra Cinecittà e Fregene.
Lei e la Alberti più intelligenti, fortunati, incoscienti…
Tutti e tre. Aggiungo: dotati.
Avete contribuito alla fama di Bud Spencer e Terence Hill.
Grazie a Italo Zingarelli: un uomo particolare dal fisico simile a quello di Carlo (Pedersoli), con uno humour sfrenato e una enorme capacità di trasmettere il suo sapere; per noi rappresenta la “bottega del Verrocchio”. È stato lui a creare il filone Bud e Terence in chiave comica e a partire da Più forte ragazzi.
E poi Io sto con gli ippopotami.
Fenomeno mondiale…
La colonna sonora degli Oliver Onions vendette 300 milioni nella sola Germania.
Bud Spencer…
Persona deliziosa, mangiava delle quantità di cibo non umane; poi si perdeva un po’ nel Casinò di Cannes: giocava delle cifre altrettanto non umane.
Hill ascetico…
Ragazzo pulito, carino, intelligente, moderato.
Gli opposti.
Sì, ma con una sintonia perfetta, reale e per tutta la vita.
Ha lavorato con Marco Ferreri…
Sempre con Barbara abbiamo riscritto i dialoghi tra Mastroianni e la Deneuve ne La cagna, film tratto da un racconto di Flaiano.
Mastroianni innamorato della Deneuve.
Innamoratissimo, quando se n’è andata l’ho visto piangere come pochi altri in vita mia. Poi prese una casa a Parigi e tutti i giorni si piazzava in un baretto, tanto che i propietari dell’esercizio gli dedicarono il nome di un sandwich.
Sempre lì…

Sì, perché quel baretto era di fronte alla casa di Catherine. La controllava.
La Deneuve è arrivata dopo Faye Dunaway…
In quel caso è stato lasciato perché non voleva sposarla…. Con Faye ho realizzato un film con la regia di Coppola e tratto da un libro di John Fante, Aspetta primavera, Bandini.
Come è arrivato a Coppola?
In realtà è lui ad aver raggiunto noi: voleva lavorare su Fante, poi ha scoperto che i diritti erano miei e di Franceschi.
Torniamo agli anni del terrorismo: oltre a Volonté, il mondo del cinema ne ha subito una fascinazione?
Certamente, ma in maniera collaterale, non strutturata. Il dato peggiore è che dopo Moro anche noi ci siamo chiusi nelle nostre case, si è perso quel flusso trasversale e osmotico.
Il suo collega Lucisano ha dichiarato: “I registi li domino”.
Io per niente, sono loro complice, dominarli è una follia. Anzi, non metto mai sotto contratto nessuno, chi vuole lavorare con me è per libera scelta, e vado sempre sul set.
Piacere e controllo…
Se c’è una sceneggiatura solida, il film si realizza da solo, è come una pianta in grado di crescere autonomamente. Quella pianta va solo innaffiata, potata e interrata.
Il suo regista…
Sono molto legato a Theo Angelopoulos, è lui ad avermi insegnato a girare i film in due tappe: inizio, arrivo a una fase, mi fermo, verifico, rifletto e calibro il seguito. Tutti dicono che così spendo di più, ed è vero, ma è il metodo giusto, a volte obbligatorio come quando è morto Volonté sul set de Lo sguardo d’Ulisse…
Era il protagonista.
Un disastro totale, una perdita assoluta. Gli abbiamo organizzato un funerale meraviglioso, con una cappella completamente foderata di rosso, lui con il volto sorridente, e Mozart nell’aria….
E il film?
Theo mi ferma e suggerisce: “Chiama Mastroianni”. Va bene. Telefono. Neanche finisco la proposta che Marcello mi manda affanculo: “Brutto stronzo mi coinvolgi solo adesso? Comunque non posso, sono impegnato con Pereira”. Ci ha salvato Erland Josephson.
Volonté.
Il più bravo. Ricordo la prova costume per Lo sguardo di Ulisse: lo raggiungiamo a casa sua, valuta gli abiti scelti, non gli piacciono. “Aspettate”. Va in soffitta e scende con degli involucri misteriosi. Li apre. Ed estrae dei vestiti di scena utilizzati da Eduardo De Filippo. Aveva vinto.
Lui temuto.
C’è una foto di Koudelka che racconta con lucidità la realtà di allora: Gian Maria serio e sereno, mentre Keitel lo guarda terrorizzato.
Volonté amava il poker. Giocava con lui?
No, ma a Roberto Calasso (proprietario di Adelphi) una sera ho tolto molti libri grazie alle carte: negli anni Sessanta lavoravo per la Marsilio, chi perdeva cedeva tomi e a lui è andata veramente male.

Koudelka è uno dei grandi fotografi del 900.
Tipo particolare: eravamo a Belgrado la notte dei bombardamenti e non sapevamo dove rifugiarci; l’addetto culturale francese ci invita in ambasciata, posto da sogno con i quadri di Braque alle pareti. Io e Theo prendiamo due suite, tanto la sede diplomatica era vuota, mentre Koudelka resta zitto. Poco dopo lo scopriamo sdraiato nel corridoio avvolto nel suo sacco a pelo. Dormiva solo così.
Si parla degli attori come creature fragili.
Bud e Terence, no; stessa cosa per Volonté; mentre Mastroianni dormiva fino a un attimo prima del ciak.
Ha nominato Weinstein.
Professionalmente un uomo molto capace, intelligente, veloce e con lui ho pure sbagliato: mi aveva offerto un milione di dollari per le vendite all’estero di un mio film. Ho rifiutato.
Oltre la professione?
Che fosse un maiale è storia nota; detto questo trovo discutibile la vicenda montata, con denunce arrivate dopo troppi anni e con modalità non proprio chiare; in questo mondo, e quasi sempre, se una donna non vuole attenzioni non le riceve.
Quindi…
Le attrici dovrebbero protestare per i diritti ancora non riconosciuti a partire dalla parità di stipendio rispetto agli uomini.
Hanno mai provato a sedurla.
Sì, ma non mi è mai interessato; tutto sommato amo le affettuosità dell’amore.
Come giudica la vittoria di un film Netflix a Venezia?
Quella polemica è una stupidaggine: il cambio tecnologico è triste e da molti punti di vista, ma è necessario abituarsi a un contesto definitivamente mutato. È giusto abituarsi e aprire alla fruizione contemporanee di tutte le forme di condivisione.
Quindi Barbera ha ragione.
Perfettamente, anche se oramai i Festival contano meno di un tempo.
Lei ha vinto Berlino, Venezia e Cannes.
Cannes due volte.
Nessun produttore ha questo palmares.
(Si illumina e sorride sornione) Peggio per loro.
Ha lavorato spesso con la Muti…
Vera star, una volta mi ha salvato indirettamente dalla polizia: mi fermano per un controllo ed ero senza patente.
Come l’ha salvata?
Viaggiavo con le sue foto autografate nel bagagliaio, erano un passe-partout per molte occasioni.
Oggi non esistono più le grandi star.
Abbiamo una serie di ottimi attori, ma non dei divi in grado di spostare le folle; l’unico in grado di prendere un po’ di pubblico è Toni Servillo, il più bravo di tutti, strepitoso come attore e come uomo, coltissimo, consapevole del suo lavoro, ed è bello vederlo mentre legge il copione, come lo sottolinea; (si ferma, cambia tono) eravamo insieme sul set quando è morto Theo, e da quel giorno siamo legati per la vita.
Di cosa ha paura?
Di nulla, neanche della morte; forse solo di soffrire.
Cosa lascia e lascerà?
Un buon artigianato, una buona bottega. E dei soldi non me ne frega nulla.
Nulla?
Zero.
Qual è la sua idea di cinema?
(Si alza, va alla libreria e prende un libro, accende una sigaretta). Legga.
(È Majakovskij: “Per voi il cinema è spettacolo. Per me è quasi una concezione del mondo. Il cinema è portatore di movimento. Il cinema svecchia la letteratura. Il cinema demolisce l’estetica. Il cinema è audacia. Il cinema è un atleta. Il cinema è diffusione di idee. Ma il cinema è malato. Il capitalismo gli ha gettato negli occhi una manciata d’oro. Abili imprenditori lo portano a passeggio per le vie, tenendolo per mano. Raccolgono denaro, commovendo la gente con meschini soggetti lacrimosi. Questo deve aver fine. Il comunismo deve togliere il cinema di mano agli speculatori”).
Se toglie “comunismo”, è la mia idea di cinema. E di vita.