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 2018  settembre 23 Domenica calendario

Intervista a Guido Davico Bonino

C’è una foto che li ritrae assieme. Un momento delle loro vite, impercettibile come il battito delle ciglia. Sono lì, con i loro volti: Nico Orengo, Carlo Carena, Italo Calvino, Giulio Einaudi e Guido Davico Bonino. È quest’ultimo che ha estratto da una cartellina la foto: «Siamo rimasti in due, io e Carlo che è più grande di me. Gli altri andati. Li penso con tenerezza. Eravamo a Rhêmes in Val d’Aosta. Stavamo tutti assieme in un alberghetto molto civile. Il paese era al fondo della valle. Sullo sfondo il Monte Bianco. Einaudi ci portava lì l’estate: “per gli esercizi spirituali”, diceva. Chiusi per una settimana, come in un convento, a parlare di programmi. Ricordo Giorgio Manganelli che si rompeva i coglioni a discutere con i colleghi. Solo Calvino riusciva a tenergli testa con i suoi silenzi. Giorgio si illuminava soltanto all’ora del pranzo. Le fauci spalancate abbozzavano finalmente un sorriso».

Quando hai iniziato a lavorare all’Einaudi?
«Sono nato nel 1938, entrai in casa editrice all’età di 23 anni, portato da Italo Calvino».
Sei nato dove?
«Ad Asti. Da eminente commercialista mio padre ebbe la brillante idea di tornare in guerra col grado di ufficiale. Voleva servire la patria, si giustificò. In Africa mise una bomba sotto un carro armato inglese e saltò con esso. Si chiamava Davico. Dieci anni dopo mia madre sposò un Bonino. Un dirigente di banca. Ebbi così il doppio cognome. Del mio primo padre non ricordo nulla. Avevo 4 anni quando se ne andò, morì a El Alamein nel 1942».
Ad anni di distanza cosa pensi di quella sua scelta?
«Credo ci voglia grande rispetto per scelte così radicali. Io non lo avrei fatto. Oltretutto, si schierò dalla parte sbagliata. Ma chi sono io per poterlo giudicare?».
Eri il figlio mollato in tenera età.
«Sì, forse gli avrei chiesto perché lo aveva fatto. E lui mi avrebbe guardato come si guarda un estraneo. Non avrebbe capito la mia domanda e forse non avrei capito la sua giustificazione».
Sarebbe venuto fuori un pareggio.
«Un tristissimo zero a zero. Nei miei anni successivi alla guerra non ho sofferto la sua assenza. Certe volte penso che se fosse scappato con una ballerina lo avrei capito di più».
Negli anni seguenti cosa hai fatto?
«Liceo a Torino dai Salesiani. Meno prestigioso del D’Azeglio ma più aperto. L’università sempre a Torino. Mi sono laureato con Giovanni Getto. Fu un meraviglioso despota. Da lui ho imparato come si legge un testo letterario. Mi sarebbe tornato utile per gli anni einaudiani».
Dicevi che fu Calvino ad appoggiarti.
«Avevo recensito su di una rivista la sua trilogia. Dovette piacergli perché mi telefonò invitandomi in casa editrice. Per me Einaudi significava un mondo che mai mi sarei sognato di visitare. Al più potevo comprarne i libri a rate. Andai all’appuntamento con qualche palpitazione. Calvino mi ricevette in una grande stanza. Occupava un tavolo. Gli altri due erano sgombri. Se accetti di lavorare qui puoi sederti su quello di fronte al mio. Mi incuriosì l’altro tavolo».
Perché?
«Era orribile, tempestato di tagli e bruciature. Qualche mese dopo mi disse che era stato il tavolo di Pavese. Fumava un numero inverosimile di sigarette e schiacciava i mozziconi direttamente sul legno. Quel tavolo, con le zampe a X era una reliquia».
Calvino cosa faceva in casa editrice?
«Si occupava dell’ufficio stampa. Ma non voleva più farlo, per questo aveva pensato che io potessi prendere il suo posto. In realtà i suoi compiti erano più articolati. Comunque tornai a casa e dissi al mio padrino, dirigente del Banco Ambrosiano, che c’era questa opportunità. Sbottò con un “ per carità, lascia perdere quei comunisti pieni di debiti!”. Risposi: è la più grande casa editrice italiana che mi frega dei debiti!»
Come fu l’impatto?
«Con me Calvino fu magnifico: severo ed esigente ma anche paziente e dolce. Lui era di Sanremo e i miei avevano una casa a Bordighera. L’estate cominciammo a frequentarci. Fuori dal lavoro era impacciato, silenzioso, assente. Certe volte si andava in qualche balera. Locali sul mare. Si dimostrò un pessimo ballerino. Una volta mi disse: Guido, io alle donne darei del lei anche a letto. La dice lunga sulla sua timidezza».
Eppure ha avuto storie importanti e burrascose.
«È il destino di certi timidi, piacciono a loro insaputa. Ti racconto un episodio che accadde alcuni anni dopo. Ero in casa editrice. A un certo punto irruppe una biondona con lo chignon. Mi accorsi che in mano aveva una pistola vera. Dov’è Italo, dov’è? Gridò nel corridoio. Ma lei chi è, che vuole? Sono Elsa De Giorgi, quel mascalzone dov’è?».
Era male intenzionata.
«Un usciere senza un braccio, perso durante la resistenza, si avvicinò e le disse: ma signora perché urla, il dottor Calvino non è in sede. “ Non ci credo, ditemi dov’è”. Giulio Einaudi comparve sulla soglia del suo studio. Capì perfettamente cosa stava accadendo e impaurito si richiuse dentro. Italo dov’è? continuava a gridare la signora».
Calvino dov’era?
«Effettivamente non c’era. Giunse anche Giulio Bollati che riuscì a calmarla. Alla fine se ne andò. Era ancora una bella donna appesantita nel corpo. Furiosa per il tradimento del suo amante».
Si erano scritti lettere bellissime.
«Lo avremmo scoperto molto dopo. Quando rividi Italo mi disse che da una settimana dormiva fuori casa; certe notti da Fruttero, altre da Lucentini. Scappava dall’ira della De Giorgi! Un episodio del genere fu a suo modo unico. In casa editrice vigeva l’etica del silenzio. Non si parlava mai di questioni inerenti il sesso. Il sesto comandamento era formalmente rispettato».
A parte obbedire al precetto del non commettere atti impuri tu che compiti rivestivi?
«Per un po’ svolsi le funzioni di ufficio stampa, ma dopo pochi mesi mi nominarono segretario generale. Più che compiti editoriali svolgevo un ruolo di raccordo. Einaudi, Bollati e Ponchiroli dettavano la linea io ero il “porta messaggi”. Guardavo i manoscritti le traduzioni e se c’era qualcosa da aggiustare chiamavo il redattore competente. Se, poniamo, una traduzione dall’inglese o dall’americano doveva essere messa a posto interpellavo Lucentini, che era puntualissimo come un orologio nel consegnarmi il tutto corretto».
Faceva già tandem con Fruttero?
«Erano molto legati, anche se profondamente diversi. Fruttero era volage; Lucentini consegnato a un suo mondo interiore. Ma si intendevano perfettamente. Quando uscirono da Einaudi fu una perdita. Ma non quanto il passaggio di Calvino alla Mondadori. Il rammarico degli einaudiani fu fortissimo. Come se fosse stato trasgredito un codice etico».
Cosa intendi dire?
«Voglio dire che certe cose non si facevano. Scarpe rotte e pur bisogna andar. Era il motto di Pavese. C’era un sostanziale disprezzo per il mercato. Alle famose riunioni del mercoledì, per dire, Roberto Cerati, direttore commerciale, non ha mai aperto bocca. Anzi non voleva proprio partecipare. Voi fate la politica culturale io ho il compito di vendere quello che pensate, diceva. Era un uomo francescano. Viveva la cultura come una missione religiosa».
Credo sia stata una figura irripetibile.
«Assolutamente. Quando alla fine accettò di partecipare alle riunioni, si metteva seduto attorno al tavolo ovale, che aveva disegnato Max Huber, ma distante da tutti gli altri».
Come funzionavano queste riunioni. Tu partecipavi?
«Vi fui ammesso dopo un anno che ero in casa editrice. Non c’era nessuna apparente gerarchia nei posti. Ma tutti sapevano dove sedersi. Il mercoledì alle sei suonava il campanellino della riunione. Una trentina di persone si sedeva attorno al tavolo. Mormorii, rumori di sedie, pacchi di carta, naturalmente bozze e libri. Era il paesaggio solito. Appena entrai mi sedetti timidamente nell’unico posto libero tra Massimo Mila e Norberto Bobbio».
Di cosa si parlava?
«Si discuteva delle letture fatte e se ne assegnavano di nuove. Più o meno tutto filava liscio. Le uniche vere burrasche editoriali si verificarono con il Sessantotto».
La temperatura si alzò?
«Febbre alta. L’irruzione del movimento studentesco e delle prime contestazioni fu un vero trauma per la casa editrice. Alle riunioni i presenti si spaccarono. Bobbio, contestato all’università, si oppose fieramente a ogni qual si voglia apertura. Cesare Cases, da vecchio comunista, era più possibilista. Chi sposò la causa degli studenti fu Einaudi. Una volta difese la pubblicazione di certi libretti, trovando la compiacenza di molti redattori. Bobbio era allibito. Si alzò di scatto e allontanandosi mormorò: mi avete rotto i coglioni! Fu l’unica volta in cui lo vidi perdere il controllo».
Di Einaudi che giudizio dai?
«Un uomo dotato di una intelligenza intuitiva. Ubbidiva solo al suo istinto e aveva l’attitudine di mettere gli uni contro gli altri. Non aveva alle spalle un grande patrimonio di letture. Tra l’altro si era iscritto a medicina credo subendo un po’ il fascino del papà di Natalia Ginzburg che era un anatomopatologo. Alla fine si dedicò con successo alla casa editrice».
Ne è stato l’artefice?
«No, l’anima dell’Einaudi fu Leone Ginzburg e a seguire fu importante il lavoro di Pavese. Ma Einaudi sapeva bene cosa si dovesse pubblicare. Poi ci sono stati personaggi rilevantissimi che hanno contribuito al fasto della casa editrice».
Tra questi Delio Cantimori?
«Era un professore ascoltato, riverito e amato soprattutto da Giulio Bollati e Daniele Ponchiroli che furono suoi allievi. Fui incaricato di affiancare Delio Cantimori nel compito di allestire una guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata, che poi sarebbe stata realizzata a Dogliani. Confesso che per me l’esperienza con Cantimori non fu esaltante».
Come mai?
«Era entrato in una fase dispersiva. La ferrea determinazione tipica dell’erudito aveva lentamente lasciato il campo a una specie di vaghezza cui contribuiva l’eccessivo uso che faceva dell’alcol. Ho invece molto amato Carlo Dionisotti, il suo magistero, la sua brillantezza sono stati un esempio per molti. Per me che ho insegnato in varie università».
Sei andato via dall’Einaudi perché?
«Mi dimisi a 40 anni nel 1978. Non andai via sbattendo la porta o dicendo qui non si può più stare. Sentivo dentro di me che una stagione era finita. Immaginavo che avrei fatto altro nella vita».
Ti sei occupato di teatro.
«L’ho sempre amato pazzamente. E l’ho diretto: Torino e Spoleto. Ho l’impressione che non mi interessi più. Anzi, il teatro oggi mi fa orrore».
Non sei troppo drastico?
«Come tutti i vecchi non ho più il tempo di perdermi dietro sottili distinzioni. Oggi tutti pensano di fare teatro. Ma il teatro è difficile ci vuole disciplina, abnegazione. Oggi si recita “nature”. Ma recitare è la cosa meno naturale che esista. E non mi sento affatto tranchant».
Giudizi tranchant ne hai dati. Penso a quelli che ti procurarono un litigio con Carmelo Bene.
«Era un talento strepitoso e non mi sono mai sognato di negarlo. Ma concepiva l’universo a misura sua. Era io, io, io. Ci scontrammo sul fatto che secondo me molte cose non le conosceva. Ma sapeva vendere molto bene quel poco che masticava. Si sentiva unico. L’Attore con la a maiuscola. Io sono sempre stato il critico con la c minuscola».
Hai pubblicato degli scritti di critica teatrale di Gramsci.
«Sono le sue Cronache (edite da Aragno). Mi sembrava giusto mettere a disposizione del lettore questo aspetto poco noto dell’autore dei
Quaderni del carcere».
Perché gli interessava il teatro?
«Un po’ per guadagnarsi la pagnotta, ma soprattutto perché nella forma teatro c’era un modo di raccontare quella vita che lui non amava e non condivideva. Fu tra i primissimi a scoprire la grandezza di Pirandello. Dicono che a teatro arrivasse carico di caramelle fondenti. Scartava e mangiava. Indifferente a quel leggero ruminare che pare infastidisse i vicini».
A te cosa infastidisce?
«Il rumore. Ma tutto oggi è rumore. Un brusio privo di senso. Ho compiuto poche settimane fa 80 anni e se penso ai compleanni tondi di dieci o venti anni fa, mai, dico mai, mi sarei aspettato di precipitare in questo tempo buio. Sono desolato e non so più a quale chiodo appendere le mie giustificazioni. A volte dò la colpa alla vecchiaia: Dico: sono io che non vedo e non capisco. Sono io che non mi aspetto più nulla dal futuro. Ma so che non è vero. Perché il malessere serpeggia in tutti. E allora cresce il rumore. Pare un circolo vizioso».