La Lettura, 23 settembre 2018
Sul set della serie tv “Il nome della rosa”
Le pagine sono così gonfie di annotazioni, consumate, che quasi il libro non si chiude più. È un’edizione economica, in inglese, The Name of the Rose. John Turturro lo porta in una borsa di tela che spunta dalle pieghe del saio e mentre si tiene pronto al ciak lo consulta in continuazione. Quasi un rito propiziatorio, regolarmente celebrato sul set che «la Lettura» ha potuto visitare in una sessione notturna. Nella serie Il nome della rosa che Giacomo Battiato sta ultimando a Cinecittà (e dintorni) l’attore americano è il Guglielmo da Baskerville che non ti aspetti. Lontano, certo, dal piglio guascone che Sean Connery gli diede nella prima trasposizione del romanzo, quella firmata da Jean-Jacques Annaud, ma anche alla descrizione che nelle prime pagine del romanzo ne dà Umberto Eco: «La sua statura supera quella di un uomo normale ed era tanto magro da sembrare più alto», «il viso allungato e coperto di efelidi», «le sopracciglia folte e bionde».
Quando si passa al carattere, il ritratto si fa più fedele. «La sua energia pareva inesauribile, quando lo coglieva un eccesso di attività». E se si prova a guardarlo attraverso lo sguardo di Adso da Melk, il ventenne tedesco Damien Hardung – che pare davvero averlo scelto come maestro e che sul set non si stacca da lui – Turturro trasmette una consonanza totale. D’altronde con frate Guglielmo, ex inquisitore, amico di Guglielmo da Occam e di Marsilio da Padova, Turturro ha convissuto a lungo. Durante le 24 settimane di riprese tra gennaio e giugno e anche negli intervalli, racconta Battiato. «Abbiamo passato tutti i weekend insieme, da gennaio all’estate, il libro l’abbiamo letto, riletto, sottolineato, cucito. Riportato all’originale. Un lavoro incessante, la mia impressione è stata come se John abbia voluto calarsi totalmente in questa realtà. Ha fatto qualcosa di eccezionale».
Tre teatri, 300 attori, tremila comparse C’è poco di ordinario in questa serie che il pubblico inizierà a vedere a partire dalla prossima primavera. E non solo per il carattere unico della vicenda ambientata nell’ultima settimana di novembre del 1327, la scia di delitti narrata dal novizio Adso da Melk nel manoscritto misterioso all’interno della cinta abaziale dove è giunto con il suo maestro Guglielmo, mentre Ludovico il Bavaro assedia Pisa pronto a marciare su Roma, il papa è a Avignone e i roghi degli eretici illuminano l’Italia e la Francia.
Budget massiccio: 26 milioni di euro. Cast internazionale sterminato: oltre 300 attori, più di tremila comparse. Troupe di oltre 200 persone con due unità produttive impegnate per alcuni periodi delle riprese. La più grande realizzazione degli ultimi trent’anni a Cinecittà. Oltre che Cinecittà, Battiato e il clan degli irlandesi (il direttore della fotografia John Conroy e il montatore Stephen O’Connell) hanno utilizzato come location Santa Maria in Cosmedin a Roma, il Parco del Tuscolo, il Castello Odescalchi di Bracciano. E Manziana, Vulci, Perugia, Bevagna, Montelabate, Campofelice, la Maiella, le Gole di Fara San Martino. Ma è l’occupazione di Cinecittà a fare la differenza: tre teatri di posa impegnati per mesi oltre a un’area esterna di quattromila metri quadri, dove gli artigiani hanno ricostruito l’Abbazia: chiesa, stalle, chiostro, balnea, dormitori, fucine, ospedale. La biblioteca. Costruita in teatro e ricostruita all’aperto prima della scena dell’incendio. Dimensioni che rimandano al passato, così come sembra un viaggio nel tempo – all’epoca dell’Hollywood sul Tevere – la visita nei locali guardaroba che ospitano i costumi di scena (e calzature, copricapi, armi, paramenti, accessori) disegnati da Maurizio Millenotti. È andato a cercare in Marocco le stoffe per i sai, alcuni tessuti degli abiti dei nobili arrivano dalle nostre grandi sartorie. Per le scene di battaglia sono stati impegnati ducento cavalli, almeno altrettanti stuntman. Risultato: 260 ore di girato su cui ora si lavora tra montaggio e postproduzione fino al prossimo febbraio.
Medioevo e tradimenti Sono due gli immaginari con cui occorreva confrontarsi. Quello creato da Eco fin dalla premessa con cui l’autore presenta il manoscritto dell’abate Vallet: «Essa è storia di libri, non di miserie quotidiane». E quello del film, dove Annaud si trovò a condensare in due ore una materia sterminata. «Il nome della rosa — osserva battiato – è più libro che romanzo. È come una cattedrale, ha una tale ricchezza di materiali differenti che lo rendono un grande testo, gigantesco. C’è la trama di giallo, di inchiesta su un serial killer, cioè il filone seguito nel film uscito trent’anni fa. Ma dietro c’è una specie di compendio della storia della filosofia e, insieme, una serie di temi che sono legati alla politica e rimandano alla nostra attualità. Un momento storicamente straordinario in cui si pongono le basi del senso della democrazia, della separazione tra Stato e Chiesa e del potere della religione, che noi nella serie possiamo toccare. Questo libro dimostra come il Medioevo che viene in continuazione chiamato in causa come termine spregiativo, sinonimo di epoca nera, è in realtà un momento di ricchezza intellettuale straordinaria. Che Eco conosceva a perfezione».
Anche la storia della serie sembra un racconto nel racconto. Eco stesso fece a tempo a visionare la prima stesura italiana della sceneggiatura, firmata da Andrea Porporati e una seconda, inglese, di Nigel Williams. «Io sono entrato un anno e mezzo fa – racconta il regista veronese – e ho fatto quella definitiva tenendo conto ovviamente di tutto». Fedele alla linea del romanzo con qualche, piccolo, tradimento. «Il tema che ho sviluppato maggiormente è l’eresia. Io in passato avevo sviluppato un progetto franco-americano sui Catari. Ci sono elementi del catarismo su tolleranza, amore, rispetto delle persone, uguaglianza totale tra uomini e donne che influenzarono i dolciniani di cui parla Eco nel libro. E mi ha permesso di fare spazio a due personaggi femminili: la ragazza di cui si innamora Adso, una rifugiata, e un personaggio nuovo, connesso alla storia di Dolcino. La nobildonna a cui fu legato, Margherita di Arco. La storia ci dice che quando viene imprigionata lei fosse incinta. Ho immaginato che avessero una figlia, una storia parallela».
Guglielmo e Bernardo La scommessa più immediata è legata al cast. Internazionale, non solo per motivi di co-produzione (11 marzo Film, Palomar e Tmg con Rai fiction e Amc networks). «Doveva essere perfetto. Abbiamo cercato, per quanto possibile, di mantenerci fedeli alle origini dei personaggi così come sono stati scritti da Eco». Perciò Adso è stato cercato in Germania. «E siamo stati fortunati a trovare un ragazzo di vent’anni che avesse quella maturità artistica». Rupert Everett, l’inquisitore, si è praticamente autocandidato. Lo descrive «spietato, senza senso dell’umorismo, sessualmente represso». «Giusto, è un integralista fanatico, più facile da paragonare ai capi dell’Isis. Fabrizio Bentivoglio è un Remigio straordinario. Stefano Fresi è Salvatore, il mezzo matto a cui ho dato un compito: fabbrica la carta con gli stracci al mulino. Greta Scarano interpreta Margherita e sua figlia Anna». Michael Emerson è l’Abate, James Cosmo Jorge da Burgos, Roberto Herliztka fa Alinardo di Grottaferrata, Sebastian Koch il Barone von Neuenburg, il padre di Adso, Richard Sammel è Malachia da Hildsheim, Alessio Boni Fra Dolcino. «Per Baskerville volevamo distanziarci da Connery che era bello tra mostri. Nel libro non sono mostri. Serviva un attore che comunicasse ironia, intelligenza, distacco, che parlasse anche quando non parla». Il diretto interessato è pronto a girare. E solo a quel punto chiude il libro, e lo affida a mani sicure.