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 2018  settembre 23 Domenica calendario

Mio marito, Balthus

Indifferente agli ospiti, il vero padrone di casa si aggira lento da una stanza all’altra, ma quando si manifesta al momento del tè, incute a tutti un misto di stupore e inquietudine: sembra un giaguaro, ma è un savannah, incrocio tra un servalo e un più rassicurante gatto siamese. È il gatto più costoso del mondo, intorno ai 20 mila euro. Il suo nome? Kofi Annan (curiosamente come l’ex segretario dell’Onu scomparso il 18 agosto). D’altronde non poteva essere che così, nella casa del Re dei gatti come lo stesso Balthus aveva intitolato un celebre dipinto del 1935 nel quale si era ritratto come un dandy e con un gattone che si strusciava sui suoi lunghi pantaloni gialli. Questo quadro è ora esposto alla Fondazione Beyeler per una grande mostra che ripercorre, attraverso 40 capolavori, il lavoro di Balthasar Klossowski de Rola (1908-2001), noto a tutti come Balthus. Sono molte le mostre retrospettive realizzate su Balthus (basti ricordare solo quelle italiane di Palazzo Grassi a Venezia, nel 2001, la più imponente mai realizzata con 200 opere e quella delle Scuderie del Quirinale nel 2015) ma per la Fondazione Beyeler questa assume un valore simbolico, perché proprio in Svizzera, a Rossinière, un villaggio in mezzo ai monti a pochi chilometri da Losanna, il leggendario artista aveva scelto di vivere. E di morire. Un vero rifugio dell’anima per un maestro che aveva fatto della bellezza un credo. 
Per questa ragione, con i due curatori della mostra, Raphael Bouvier e Michito Kono, raggiungiamo quello che tutti conoscono come il Grand Chalet. Costruito nel 1766 è la più grande costruzione in legno d’Europa, 113 finestre e una facciata piena di iscrizioni: un emozionante tempio laico consacrato al nome di Balthus. Ed è proprio nello Chalet che incontriamo la donna che con Balthus ha diviso la seconda parte della sua vita. È minuta, gentilissima, sorridente: Setsuko Ideta accoglie gli ospiti con un kimono grigio, avvolto in vita da un obi scarlatto. 
Ci aspettano biscotti, torte fatte in casa e due diversi tipi di tè: uno verde, giapponese, e uno del tutto speciale, un Balthus, cioè un Earl Grey con l’opera Le Roi des chats riprodotta sulla piccola scatola di latta. «Vorrei un tè verde giapponese, per favore, non il Balthus», sussurra a un cameriere, sfidando una possibile ironia intorno a questa innocente richiesta. Ma è un pensiero che proprio non potrebbe neanche sfiorarla. 
Elegantissima e senza età, madame Balthus si muove rapida, attenta a ogni dettaglio. Figlia di una famiglia nobile giapponese (con ascendenti samurai) aveva incontrato Balthus nel 1962, appena ventenne, diventando sua compagna e modella: era bellissima. Molte foto dell’amico Henri Cartier-Bresson, sparse qua e là, lo testimoniano. «Lui ne aveva 55, ma mi disse che ne aveva 50», confessa sorridendo. «Io non ho mai parlato con lui della nostra differenza d’età. Mi diceva, nel tentativo di spezzare il tempo, che ho sempre 12 anni. Il tema dell’età non è mai stato importante. D’altronde essendo nato il 29 febbraio festeggiava ogni 4 anni. Qualche anno fa abbiamo celebrato i 22 anni di mia figlia e i 22 anni di Balthus. E lui ripeteva sorridendo: morirò giovane». Poi, con ironia aggiunge: «Per fortuna stavo accanto a lui e ho avuto la stessa misura di tempo».
Sul tema del tempo, e non solo, Balthus aveva avuto un maestro davvero eccezionale: Rainer Maria Rilke (che aveva una liaison con la madre) aveva offerto al giovane Balthus, poco più che bambino, una chiave molto poetica per superarlo: «A mezzanotte si apre sempre una piccola lacuna tra il giorno che finisce e quello che inizia, e una persona molto agile, in grado di scivolarci dentro, sfuggirebbe al tempo». Così consigliò: Quello, mio caro Balthus, è dove dovresti insinuarti nella notte del 28 febbraio». E lui l’ha fatto. 
Dal ’61, Balthus era diventato direttore dell’Accademia di Francia a Roma e dobbiamo a lui il restauro di Villa Medici. Dal loro primo incontro a Kyoto, nel 1962, durante un viaggio diplomatico, la loro vita è stata un susseguirsi di emozioni potenti, di amicizie con uomini straordinari, di silenzi condivisi, di gioie, ma anche di infiniti dolori. Balthus la sposa nel 1967. 
Due mondi apparentemente lontanissimi, eppure legati in modo indissolubile. Anche la signora Setsuko Klossowski de Rola è un’artista. Ha cominciato a dipingere, ricorda, «per fuggire alla disperazione della perdita di un figlio. L’arte è un rifugio indispensabile per sconfiggere quel dolore e Balthus mi è stato vicino, sempre». Per lei, Balthus «aveva accarezzato la sua vita e dipinta su una tela invisibile». Una immagine poetica che accompagna la visione di una donna colta e perfettamente consapevole del ruolo, ora concentrata sulla difesa della memoria dell’uomo con cui ha condiviso buona parte della sua esistenza. Ed è proprio qui a Rossinière, dove sono approdati nel 1977, dopo l’esperienza di Villa Medici, che oggi la vedova Balthus continua quella vita, dedicandosi alla fondazione, al suo ruolo di ambasciatrice dell’Unesco, all’incontro con autori, alla preparazione delle mostre: ha appena lavorato con Bob Wilson e Wim Wenders per un’opera teatrale e un film. 
Delicatezza, grazia, ma anche senso pragmatico, attenzione alla realtà. Così, sapendo bene come si muove il sistema dell’informazione, non è impreparata alla domanda sulla polemica nata dalla petizione che chiedeva lo «spostamento» del dipinto Thérèse rêvant giudicato troppo scandaloso, conservato al Metropolitan di New York e ora visibile nella mostra alla fondazione Beyeler. «Dobbiamo innanzitutto capire quali sono le basi di questa discussione. Se uno guarda un quadro non come opera d’arte, ma pensando alle convenzioni, alle proprie ossessioni o paure, il problema è solo suo», risponde. «Per quanto mi riguarda, non comprendo proprio questa polemica. Infatti il Metropolitan ha risposto correttamente. L’opera è rimasta al suo posto. La questione drammatica dei nostri giorni è che è diventato sempre più difficile parlare d’arte, perché sei costretto a confrontarti spesso con chi non ha competenze, sensibilità e cultura. Per quanto riguarda Balthus ha lavorato profondamente partendo dalle radici della storia dell’arte. Ognuno è libero di pensare e di dire quello che vuole, ma da parte mia posso rispondere con una frase del Macbeth». La vedova Balthus apre una vecchia edizione della tragedia di Shakespeare e legge il testo originale del quinto atto: «Told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing». Già, forse questa storia è proprio «un racconto narrato da un idiota, pieno di grida, strepiti e furori, del tutto privi di significato». Ma la signora Balthus non si ferma qui: «Sembrerò un po’ dura: ma se non c’è questa visione dell’arte non c’è possibilità di dialogo. E non sono contro altri mondi e prospettive. Ma questo non è proprio il mio mondo. E non è nemmeno il mondo di Balthus». Poi, in italiano, con un gesto della mano come fosse il taglio di una lama: «Basta!».
Su questo tema, i due curatori, con Sam Keller, direttore della Fondazione Beyeler, hanno riflettuto. Così hanno pensato a uno spazio di discussione aperto grazie a una bacheca in cui i visitatori possono scrivere le proprie opinioni rispondendo a questa domanda: «Che cosa dei dipinti di Balthus vi ha affascinato, irritato o sorpreso?». La bacheca è stata subito invasa da annotazioni tanto da dover essere aggiornata ogni giorno. I giudizi vanno da riferimenti letterari come «Mi ricorda Lolita» (accompagnato dal disegno di una ragazzina) a secche ed esplicite accuse: «Sciovinista, sessista, reazionario». 
Balthus era consapevole del potere provocatorio di alcuni suoi lavori. Nella prima mostra nel ’34 alla galleria Pierre a Parigi non aveva venduto un quadro, ma aveva fatto parlare subito di sé per quelle opere così trasgressive e dense di un erotismo latente. È stato lo stesso Balthus a spiegare il senso del proprio lavoro: «Ho cercato di dipingere i segreti dell’anima, la tensione oscura e luminosa della loro matrice parzialmente fiorita. Potrei dire che riguarda la traversata. L’incerto momento preoccupante in cui l’innocenza è totale e presto cederanno il passo a un’altra era, più sociale». 
Sono molti i quadri di Balthus concentrati a descrivere quella bellezza innocente e inconsapevole di una stagione di passaggio. Le bimbe/modelle sono state molte, figlie di amici, la celebre Thérèse, o la Micheletta, vicina di casa: «Io penso sia normale che un uomo sensibile sia attratto da quel modello di bellezza, un’età dell’innocenza, da quel tempo sospeso», sottolinea madame Balthus. «Lui non si preoccupava affatto di quello che pensava la gente. Voleva solo quello che cercava. Era un aristocratico della cultura. E non voleva perdere tempo». Poi, interpretando un desiderio degli ospiti: «Vi accompagno nello studio, vi voglio far vedere una cosa».
L’atelier di Balthus non è all’interno del Grand Chalet, ma di fronte, in una insignificante casetta in legno. Quando si entra, tutto si trasforma: si è innanzitutto abbagliati dalla luce di una grande finestra e la percezione è quella di vivere un privilegio esclusivo ma al tempo stesso di profanare un tempio.
Colpisce una grande tela scura delle stesse dimensioni del celebre Passage du Commerce- Saint-André su cui sono impresse solo poche righe che indicano uno studio di prospettiva. Voleva farne una nuova versione? Da anni la conservava così, solo una tela con un’idea ancora in testa. Ora guardando questa tela scura e priva di ogni figura sembra di intravvedere tutto il mondo di Balthus, tutte le opere possibili e in esse la tensione verso il capolavoro assoluto. Una tela che incarna il desiderio di ogni artista: la proiezione verso il futuro, verso l’immortalità. 
E qui Balthus è davvero ancora vivo: vivo nei suoi pennelli, nelle tele solo abbozzate e accatastate su una parete, nei libri di Delacroix, Masaccio, Giotto che consultava sempre. Qui tutto è congelato, sospeso nel tempo: un paio di occhiali su un libro dedicato agli affreschi di Assisi, un posacenere con i resti delle sigarette, diverse tavolozze ricolme di colori e una infinita varietà di pigmenti che si faceva arrivare dall’Italia: l’Ocra Avana, la Terra di Siena naturale, il Giallo titanio. «Li prendeva da Memmo in via del Gesù», dice la signora Setsuko. E si racconta che Balthus gli abbia chiesto anche il «Bruno di mummia», una sostanza scura, che si faceva nell’Ottocento macinando i resti di antichi egizi defunti e le resine che li ricoprivano, impastandoli poi con l’olio di lino. Ma Memmo, pensando che lui scherzasse, non glielo procurò mai.
«Vede, là c’è la foto di Giacometti. Non è un caso che lui tenesse il ritratto nello studio. È stata la prima persona che ha voluto che io incontrassi. Erano molto amici. E quando Giacometti è morto, lui continuava a parlargli. Perché mi sono innamorata di Balthus? Vede, per me, nell’amore, è l’uomo che deve decidere. Deve essere un rapimento dell’anima, l’uomo ti deve portare via e farti emozionare, stupirti. Io so che Balthus ha sempre compreso il profondo valore spirituale della cultura giapponese. Lui mi ha sempre dato un immenso amore e condivideva il mio sentire le cose della vita. Grazie a lui ho trovato qualcosa dentro di me che non ero in grado di riconoscere».
«Come è stata la nostra permanenza a Roma a Villa Medici? È stata un’epoca d’oro. In particolare per il cinema. Tutti venivano a Cinecittà a fare i film. In quegli anni abbiamo fatto amicizia con Fellini, Visconti, Antonioni, Zurlini, Pasolini e tanti altri registi e attori stranieri». Madame Balthus sorride: «Penso a quella volta che Mastroianni, durante una cena a casa, ha cominciato a piangere. Piangeva a dirotto. Sembrava un bambino. Era il momento della separazione con Catherine Deneuve. Non sapevamo come consolarlo». C’è da chiedersi come fosse la vita quotidiana in questa magica cattedrale di legno: «Qui a Rossinière Balthus dipingeva tutti i giorni. A Roma no, aveva anche compiti istituzionali e allora non poteva. Faceva molti disegni che vendeva per finanziare il restauro di Villa Medici. Incontrava personaggi importanti e ambasciatori solo per recuperare i fondi necessari. Fu lì che dipinse il mio ritratto, La Chambre turque, tra il 1965 e il ’66. Era maniacale, imponeva di stare fermi per ore. Poi con il quadro finito, decise che un piede doveva essere spostato di qualche centimetro e rifece tutto». 
«Nello studio di Villa Medici non si poteva entrare, non voleva essere disturbato – aggiunge —. Una volta chiamò il presidente de Gaulle e allora fui costretta a entrare. Mi fulminò con lo sguardo. Aveva il pennello nelle mani e nonostante mi guardasse, la sua mente era solo sul quadro. In quel momento ho capito che cos’era per lui la pittura. Una immersione assoluta che non lasciava spazio a nient’altro». Ma poi ha parlato con de Gaulle? «Sì, sì, annunciava la sua visita, una cosa normale. Parlavamo di arte, ma io non parlavo mai della sua. Lui invece entrava nel mio studio e cominciava a commentare. Mi invitava a ritoccare una parte del quadro, a spostare una figura… Io dicevo: questo è il mio quadro, non il tuo! Solo allora non diceva più niente e usciva». 
«Se ho qualche rimpianto? È stato nel suo studio sino a poche ore prima di morire. Quando se n’è andato il 18 febbraio 2001, a 94 anni, le sue ultime parole sono state: Il faut continuer. Ancora oggi mi chiedo: bisogna continuare a fare che cosa? Ripenso sempre a quel suo ultimo pensiero. Oggi, in quest’immenso chalet, quelle parole mi aiutano come fosse una guida sempre presente». 
L’incontro finisce qui: sarà una coincidenza, ma al momento del commiato, il gatto/giaguaro Kofi Annan rientra dal giardino strusciandosi sui pantaloni del curatore Raphael Bouvier, quasi in segno di complicità. Lo fa solo con lui. Poi si accomoda sulla sedia davanti all’uscita. Tutti noi siamo costretti a rendergli omaggio. Nella casa del «Re dei gatti» è buona regola che sia un gatto, o chissà, forse proprio Il Re dei gatti, a concedere il saluto d’addio.