La Lettura, 23 settembre 2018
Il corpo e la mente non hanno confini
Non è un libro di filosofia, benché affronti i classici dilemmi sul rapporto tra mente e corpo che tormentano dalle origini quella disciplina. Mette in discussione la legittimità stessa di quei dilemmi, ma non è un trattato di epistemologia. Il punto di vista è quello rigoroso di una scrittrice che ha visto mutare nella sua stessa penna «un semplice interesse» per i misteri del suo sistema nervoso (La donna che trema raccontava la storia di un’emicrania vissuta nel corpo proprio) in una «passione divorante». Da allora, era il 2011, Siri Hustvedt si è immersa nel «caos» del dibattito mente-corpo, prima come avida lettrice, poi come autrice di articoli apparsi su autorevoli riviste scientifiche.
Un neuroscienziato come Vittorio Gallese ha definito Le illusioni della certezza (Einaudi) uno dei migliori libri recenti sul problema mente-corpo, un viaggio al cuore di mille domande, o forse di una sola: che cosa significa essere umani? E se pure c’è da mettere in successione una serie di eventi essenziali per determinare le coordinate del dibattito attuale, a spiccare è l’originalità e l’eleganza dell’erudizione. Ecco così comparire personaggi solitamente trascurati o poco ascoltati – la scrittrice e filosofa seicentesca Margaret Cavendish con il suo ibrido di «panpsichismo» (concezione che conferisce un’anima all’intera realtà) e «panorganicismo» (concezione del mondo come un unico organismo), il Diderot de Il sogno di d’Alembert, il Vico de La scienza nuova — nel tentativo di rendere cristallino uno degli interrogativi più affascinanti che la filosofia ha da sempre dovuto fronteggiare: che cosa significa, per la mente umana, interrogarsi su sé stessa? Hustvedt non rinuncia a nessuna strategia metodologica per portare a termine la missione: imbastisce per esempio «un’inchiesta casuale e non scientifica su come le persone definiscono la mente», chiedendo in maniera schietta e informale al cosiddetto «uomo della strada» che cosa pensi sia la mente e se creda che sia qualcosa di distinto rispetto al corpo. Scomoda la psichiatria e la neuropsicoanalisi, il loro armamentario concettuale, per meglio inquadrare il problema mente-corpo all’interno di un più generale orizzonte che tenga conto dell’interazione fra persona e ambiente. Recupera porzioni importanti del pensiero di Alfred North Whitehead per far riemergere l’aspetto «immaginativo» che si cela dietro a ogni teoria filosofica sul mentale, sia pure quella più materialistica.
Quello che Siri Hustvedt ama è la chiarezza e la profondità della ricerca: questo libro lo dimostra svelando un orizzonte davvero sterminato e la trasversalità di uno sguardo curioso, perennemente in movimento e mai sazio, tormentato da un dubbio che, in fondo, scaturisce da un estremo desiderio di libertà. E proprio da un dubbio che «comincia come un vago senso di insoddisfazione, la sensazione che qualcosa non torni, un presagio ancora senza forma», prende le mosse questa conversazione a distanza con la quale «la Lettura» ha messo in dialogo l’autrice del libro e due scienziati di fama mondiale – Antonio Damasio e Vittorio Gallese – che hanno speso parole importanti riguardo a quel rigore innervato da una passione divorante che è la cifra dell’opera di Hustvedt.
Il suo libro si conclude su un tema decisivo, quello del dubbio metodologico. Non solo virtù dell’intelligenza, il dubbio è una necessità. Chiede di praticarlo sistematicamente anche al suo lettore?
SIRI HUSTVEDT — Il dubbio è ciò che rende possibile la scoperta. Se hai deciso prima del tempo come funzionano le cose, potresti non accorgerti di scoperte sorprendenti relative a fatti che avvengono proprio sotto il tuo naso. Alle mie lettrici e ai miei lettori chiedo elasticità mentale. Devono mettere da parte le loro idee preconcette sul corpo e sulla mente e chiedersi insieme a me: che cosa intendo quando dico «il mio corpo»? Che cos’è la mia mente?
VITTORIO GALLESE — Non potrei essere più d’accordo. Lo sviluppo della scienza e le sue scoperte sono fortemente condizionate dalla possibilità di adottare uno sguardo nuovo, non facendosi condizionare troppo dal canone e dai paradigmi scientifici predominanti. La storia della nostra scoperta dei neuroni specchio ne è un esempio (la scoperta realizzata nel 1992 dal gruppo dell’Università di Parma coordinato da Giacomo Rizzolatti che ha messo in luce l’esistenza di un meccanismo grazie al quale le azioni eseguite dagli altri, captate dai sistemi sensoriali dell’individuo, sono trasferite automaticamente al sistema motorio di chi osserva; in questo modo l’osservatore ottiene una «copia motoria» del comportamento osservato quasi come fosse lui a eseguirlo, ndr).
ANTONIO DAMASIO — Siri, lei è una romanziera, una saggista, una pensatrice che non si limita a chiedere al suo lettore di esercitare l’arte del dubbio. Ma è anche una donna in grado di utilizzare e di sottoporre a un’analisi molto sofisticata la sua mente inquisitrice. Questa è già una forma di dubbio, ed è ciò che le permette di spaziare, grazie a una curiosità inesausta, tra filosofia, psicologia, neuroscienza, biologia, per non menzionare le sue sortite nel campo dell’estetica e della psicoanalisi.
Sottoporre una questione, soprattutto quando riguarda temi controversi, al vaglio di «modelli multipli», ricorrere a un’epistemologia accogliente, conduce più che a un’unica risposta, a una di quelle zone che Hustvedt ha definito, con grande efficacia, di «ambiguità focalizzata».
SIRI HUSTVEDT — Il realismo ingenuo mi lascia insoddisfatta. La comprensione umana è condizionata dall’appartenenza a una determinata specie così come dalla cultura. Epistemologie e metodi variano da disciplina a disciplina. Il neuroscienziato, il letterato, l’antropologo e l’artista affronteranno la questione del sé, per esempio, da diverse prospettive e ricorreranno a modelli, teorie, pensieri e sentimenti diversi. Non giungeranno a una stessa conclusione ma a una rigorosa comprensione e a un’attenta disamina sia della cornice teorica sia dei pregiudizi che caratterizzano i singoli settori disciplinari: arriveranno in questo modo a una zona di ambiguità focalizzata che renderà migliori le domande successive.
VITTORIO GALLESE — Questioni complesse, come la natura della mente umana, esigono risposte complesse. Per affrontarle, le neuroscienze sono necessarie ma non sufficienti, proprio perché la natura umana è multidimensionale. Inoltre, nell’era dell’epigenetica, avendo appreso che l’ambiente influenza l’espressione dei geni e ne condiziona la trasmissione alle generazioni seguenti, dovremmo lasciarci definitivamente alle spalle la rigida distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito.
ANTONIO DAMASIO — Il fatto che tutto questo vada contro alcuni paradigmi dominanti non dovrebbe affatto sorprendere. Come potrebbero questioni così complesse adeguarsi a singoli modelli? Trovo questo approccio molto attraente. Allo stesso tempo lo ritengo l’unico che possa condurre alla verità. Sono molto contento di scoprire ne Le illusioni della certezza una forte assonanza con le mie posizioni.
Che ricadute ha tutto questo sulla pratica clinica e sulla ricerca, per esempio nel campo delle neuroscienze?
VITTORIO GALLESE — Se vogliamo utilizzare le neuroscienze per comprendere meglio in che cosa consista la capacità di relazionarsi con l’altro, il ruolo dell’empatia nell’esperienza estetica, il ruolo di memoria e immaginazione nel determinare la nostra identità, allora credo che esse possano incrementare il loro potere euristico se utilizzate in un contesto multidisciplinare che si avvalga della collaborazione con le scienze umane.
SIRI HUSTVEDT — Faccio un esempio. A gennaio ho tenuto i Neurology Grand Rounds al Massachusetts General Hospital di Boston. Dopo la conferenza, ho incontrato un gruppo di scienziati che lavoravano sulla demenza. Uno di loro, molto giovane, mi ha chiesto perché avessi raccomandato di leggere tanta letteratura, filosofia e storia, oltre a fare ricerca nel proprio campo. Gli ho detto: «Ti aiuterà nel tuo lavoro. Ti donerà la flessibilità mentale per individuare passi falsi, errori e modelli inadeguati».
ANTONIO DAMASIO — L’intreccio tra immaginazione e narrazione è uno degli elementi fondamentali della struttura della coscienza per come la conosciamo. Le ricadute riguardano dunque lo studio dell’integrazione di immagini sensoriali, che – come scrivo nel mio ultimo libro – può «produrre quelle sequenze dotate di senso che chiamiamo narrazioni». Cito ancora: «Siamo narratori instancabili di storie su quasi ogni aspetto della nostra vita, specialmente quelli importanti, ma non solo, e coloriamo con piacere le narrazioni con tutte le deformazioni delle nostre esperienze passate e delle cose che ci piacciono, o non ci piacciono».
L’origine biologica della facoltà immaginativa e delle competenze narrative sarebbe da rintracciare già nei movimenti fetali: ne «Le illusioni della certezza» si fa riferimento ai comportamenti imitativi del neonato, considerati «proto-conversazioni», già vere forme di narrazione.
SIRI HUSTVEDT — Sono convinta che la competenza narrativa tipica della specie umana sia radicata negli scambi prelinguistici di carattere musicale ed emozionale tra infante e genitore e che alcuni ritmi dinamici e sensoriali forgiati dalla madre e dal feto inizino ben prima della nascita, nella fase finale della gestazione. Non credo che i soli movimenti fetali costituiscano le fondamenta della capacità di narrare. Non credo che il comportamento fetale possa essere scisso dall’ambiente fetale, tagliato fuori dal corpo della madre, come se il feto fosse un omuncolo autonomo, un microscopico precursore dell’uomo razionale, come pure alcuni ricercatori ritengono.
VITTORIO GALLESE — La psicologia dello sviluppo e le neuroscienze hanno rivoluzionato le nostre idee sullo sviluppo psico-cognitivo del bambino, mettendo in luce la natura sociale della mente e il ruolo cruciale svolto dalle relazioni interpersonali. Relazioni che, come dice Siri, iniziano già durante la fase fetale, in cui il rapporto feto-madre condiziona lo sviluppo del cervello e le sue memorie implicite.
Feto e madre come un sistema strettamente interconnesso, dunque, ma c’è bisogno anche di fattori esterni…
SIRI HUSTVEDT — Esatto: il feto è nell’utero della madre ed è collegato anche alla placenta e al cordone placentare. Sebbene le proto-conversazioni cruciali per la competenza narrativa abbiano luogo solo dopo la nascita e si sviluppino nel tempo attraverso le forme simboliche di una certa lingua e le norme culturali, non esiste un «io narrativo» in assenza di un’intimità preriflessiva del corpo con altri corpi. La capacità di parlare, ed eventualmente di raccontare, emerge proprio da questo fondamento.
VITTORIO GALLESE — Un aspetto su cui non si riflette abbastanza è la natura «neotenica» (la neotenia è il fenomeno evolutivo per cui una specie animale mantiene caratteristiche fisiche tipicamente giovanili, ndr) della nostra specie. Nasciamo prematuri: il nostro cervello raggiunge, infatti, la piena maturazione al termine dell’adolescenza. Lo sviluppo del nostro cervello e delle competenze psico-affettive da esso sostenute è condizionato e plasmato dalla quantità e qualità di relazioni intersoggettive che il bambino intrattiene con i genitori e gli altri esseri umani con cui entra in contatto. Io e Tu, come scrisse Martin Buber, sono due facce della stessa medaglia.
Questo porta all’ipotesi del «sistema multiplo di condivisione»?
SIRI HUSTVEDT — Un’ipotesi, quella formulata da lei, professor Gallese, che condivido appieno. Tutte le azioni umane hanno un profondo carattere relazionale (betweenness) in parte influenzato dalla neurobiologia dei sistemi specchio. Siamo costituiti, voglio sottolineare questo punto, delle interazioni che abbiamo con gli altri, sia da un punto di vista genetico che epigenetico. Il genoma non è un codice, un modello per i tratti caratteristici di un organismo: partecipa piuttosto a processi di sviluppo altamente sensibili all’ambiente. Il sé è costruito da una moltitudine di storie: siamo sangue e ossa e cervello, movimento e abitudine. Non siamo esseri statici, ma esseri situati in un processo di continuo divenire.
Il suo è stato un salto nel «caos» della letteratura scientifica sulla coscienza. Damasio ha insistito sul fatto che il dibattito è deficitario rispetto al ruolo incarnato dalle emozioni. «Embodiment» (la teoria della mente incarnata nel corpo) ed emozione sembrano essere le parole-chiave del programma di ricerca della mente e del cervello per il futuro.
ANTONIO DAMASIO — Prima facevo riferimento all’interazione tra immaginazione e narrazione come a uno degli elementi fondamentali per lo studio della coscienza. Un altro elemento è sicuramente il tema delle emozioni.
SIRI HUSTVEDT — Ho trascorso molti anni immersa nel caos della letteratura sulla coscienza, che riecheggia dibattiti molto più antichi: quello greco sul rapporto psyché-soma o quello, particolarmente vivace, del XVII secolo. Nel mio libro, mi rifaccio a Damasio per sottolineare i limiti dell’impianto teorico della scienza cognitiva di prima generazione, che trattava la mente come un dispositivo computazionale separato dagli affetti e dal corpo. Credo che questa mossa rientri in una forma di resistenza tutta occidentale al tema del corpo.
Ci spieghi meglio…
SIRI HUSTVEDT — Il corporeo è associato al basso, al naturale, all’emotivo, al femminile; la mente è alta, spirituale, priva di passioni, maschile. È il motore del dualismo occulto mente-corpo che anima ancora gran parte delle scienze. Senza una profonda comprensione del ruolo degli affetti nella storia evolutiva saremmo persi. Basta osservare l’attuale situazione politica: come si può affermare che le emozioni non siano fondamentali per capire come siano fatti gli esseri umani?
VITTORIO GALLESE — Il modello della mente umana come paradigma di perfetta razionalità oggi è divenuto insostenibile. Le ricerche pionieristiche di neuroscienziati come lei, professor Damasio, e Jaak Panksepp, ampiamente discusse nel libro di Hustvedt, hanno fornito a questo proposito contributi fondamentali. Lo dimostra il caso clinico di Phineas Gage, con cui inizia L’errore di Cartesio (Gage era un operaio che nel 1848 rimase vittima di un incidente: un’asta metallica gli si conficcò nel cranio, trapassandolo; dopo pochi minuti era comunque in grado di parlare e muoversi benché il lobo frontale sinistro del cervello fosse stato distrutto; in seguito manifestò disturbi della sfera affettiva e della personalità, suggerendo, per la prima volta, una relazione tra quella parte del cervello e le emozioni, ndr): se viene a mancare la dimensione emozionale/affettiva, le nostre decisioni divengono irrazionali e inadeguate al contesto. Ciò conduce a un progressivo deragliamento della personalità, con l’impossibilità di vivere una vita sociale competente e integrata.
Una delle conseguenze di ciò che Damasio chiama nel suo ultimo libro «imperativo omeostatico» è che «strutture e processi neurali e non neurali non si accontentano di essere contigui, ma formano una partnership continua e interattiva. Cervello e corpo sono sulla stessa barca»: una metafora che molti, ancora, non sono disposti ad accettare…
ANTONIO DAMASIO — La continuità e la contiguità dei tessuti neurali e non neurali è un fatto che si imporrà da sé, presto o tardi. Difficile sapere in anticipo chi, e quando, sarà disposto a farsi carico di una evidenza così densa di implicazioni.
SIRI HUSTVEDT — Da outsider posso immergermi in metafore così vischiose: non rischio di perdere il mio laboratorio o i finanziamenti per la mia ricerca; non sarò bollata come eretica ed espulsa dalla comunità scientifica. Sono invitata a conferenze da neurologi, psichiatri e filosofi e a pubblicare su riviste specializzate perché chi mi invita si aspetta di ascoltare o leggere qualcosa che potrebbe non aver sentito o letto prima. Le parole «vischiose» spesso arrivano proprio da coloro che si appellano alla certezza epistemologica e non riescono a mettere in questione i loro modelli barcollanti, giusto per usare un’altra metafora, che danno per scontati. Il grande fisico Erwin Schrödinger una volta ebbe a lamentarsi del «grottesco fenomeno di menti allenate scientificamente, di gran competenza, che hanno vedute filosofiche incredibilmente infantili, non sviluppate o atrofizzate».
Questo che cosa comporta?
SIRI HUSTVEDT — Se si studia con attenzione la storia della scienza, si ricavano molte lezioni sui pericoli della presunzione e del riduzionismo. Alcuni scienziati tendono a esaminare processi biologici discreti o «sistemi» come se esistessero nel vuoto. L’espressione di Damasio, «partnership continua», da questo punto di vista è molto appropriata. Il cervello è un organo tra gli altri, in continua interazione con i processi neurali e non neurali, all’interno di un corpo, che esiste in un mondo popolato da altri corpi. Ignorare queste interazioni, per quanto complesse e nebulose possano apparire, conduce inevitabilmente a vicoli ciechi.
VITTORIO GALLESE — Uno dei grandi meriti del libro di Siri Hustvedt è in effetti quello di sottolineare la stretta relazione tra cervello e corpo, sia dal punto di vista della esterocezione, cioè la percezione di ciò che accade fuori di noi, che da quello dell’enterocezione, cioè la percezione di quanto accade dentro il nostro corpo.
Qualche esempio?
SIRI HUSTVEDT — Si pensi agli ormoni, a lungo considerati fondamentali nel determinare i comportamenti degli animali. Anche gli ambienti e i comportamenti, però, alterano le concentrazioni ormonali. In alcune specie, il pesce pagliaccio per esempio, le relazioni sociali possono dar luogo a drammatiche fluttuazioni ormonali che causano cambiamenti di sesso. Se la femmina dominante muore e il gruppo rimane senza un capo, un maschio subordinato si trasforma in una femmina. Gli esseri umani non sono pesci pagliaccio: siamo vertebrati più evoluti e creature sociali più complesse, e la nostra realtà socio-biologica è così sofisticata che una certa dose di vischiosità è inevitabile.
Non crede che si tratti di una posizione minoritaria nel dibattito scientifico?
SIRI HUSTVEDT — Citerò solo due eccellenti filosofi della scienza che sarebbero d’accordo con me: Evelyn Fox Keller e John Dupré. I concetti non sono fissati nel marmo. Sono entità temporali, soggette al dubbio, alla trasformazione, alla riconfigurazione e al gioco. Proprio questo è il bello.
VITTORIO GALLESE — Il riduzionismo delle neuroscienze deve fare i conti con la realtà di ciò che significa essere umani. Questo libro enfatizza i temi della relazione e del ruolo costitutivo della socialità nel farci divenire chi siamo e mette l’accento sulla centralità della nozione di esperienza. Le macchine eseguono computazioni, gli esseri viventi fanno costantemente esperienza del proprio incontro col mondo fisico e con il mondo degli altri. Lo studio della dimensione esperienziale della cognizione sta fortunatamente divenendo uno degli snodi centrali nello studio del cervello-corpo. Le illusioni della certezza rappresenta un riuscitissimo esempio di come le neuroscienze non possano fare a meno di un costante dialogo con le scienze umane, se ambiscono a comprendere la nostra natura senza sacrificare nulla della sua meravigliosa ed enigmatica complessità.
ANTONIO DAMASIO — A partire da un’esplosiva miscela di conoscenze e capacità critiche, seguendo esclusivamente un’agenda di ricerca che è sua e di nessun altro, e che nessuno, dall’esterno, può forzare verso forme di deferenza dovute al fatto di appartenere a un gruppo dell’establishment culturale piuttosto che a un altro, credo che lei, Siri, abbia dato forma a un commentario accuratissimo, uno strumento per muoversi tra le diverse teorie contemporanee sulla natura della mente umana. Ripeto: non mi sorprende affatto che spesso si trovi a navigare controcorrente.