Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  settembre 23 Domenica calendario

Le guerre del futuro si vinceranno con i computer quantistici

L’aeroporto di Copenaghen accoglie il viaggiatore con bancarelle intere dedicate al grande momento di soft power vissuto oggi dalla Danimarca, «il Paese più felice del mondo» secondo varie classifiche. Ci sono le pile dei libri di Meik Wiking sui concetti ormai globali di hygge (un avvolgente benessere scandinavo fatto di caffè, calzettoni, candele, torte casalinghe e amici) e di lykke (parola danese per felicità), manuali su «Come essere danese» e altri bestseller in inglese come «Il popolo quasi perfetto» e «Un anno vissuto danimarcamente». 
Bastano dieci minuti di treno e si arriva nel centro della capitale, dove al Museo danese della guerra le cose si fanno un po’ più tetre. L’Università della Danimarca del Sud ha invitato da Australia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Svezia cinque importanti pensatori nel campo delle scienze sociali e li ha accolti in due grandi sale, tra centinaia di cannoni, lance ed elmi dei soldati danesi dalle guerre nordiche del Seicento fino all’Iraq e all’Afghanistan, per dare vita a un seminario sul «Futuro delle guerre». L’hygge c’è anche qui, frequenti pause permettono a relatori e pubblico di scambiare qualche parola tra dolci, frutta e vino californiano. Gli interventi però inducono a un minore ottimismo sulle relazioni umane; raccontano di una futura guerra perpetua, decentralizzata, ubiqua, ultraviolenta, rivoluzionata dalle macchine intelligenti e dai computer quantistici ormai di prossima realizzazione grazie a un laboratorio a pochi chilometri da questa sala, sempre a Copenaghen, insospettabile centro del mondo. 
La «quantum war»James Der Derian immagina la prossima era della quantum war, definita come una serie di «osservazioni di immagini di grande impatto che permettono e delimitano nuove condizioni di violenza». «Per lanciare queste guerre servono due clic: uno per prendere un’immagine e un altro per inviarla con il telefono cellulare. Uno scatto che coinvolge reti neurali esterne in un parossismo collettivo di dolore e piacere, che localizza in modo efficace (e perverso) il piacere nel dolore dell’altro». L’immagine della guerra viene sostituita da una guerra di immagini, ed è facile individuare il punto di rottura nell’11 Settembre e negli altri orrori che ne sono seguiti, fino alla violenza estetizzante dei video dello Stato islamico. Quantum war significa che «i nostri modi di osservazione hanno un impatto diretto sui fenomeni osservati», come prevede l’«interpretazione di Copenaghen» (di nuovo) della meccanica quantistica proposta negli anni Venti da Niels Bohr, che per questo litigò con Albert Einstein. Le immagini di violenza e di conflitti trasmesse in Rete e condivise sui social media possono concretamente produrre nuove guerre globali, combattute da un’infinità di attori: individui, milizie, gruppi terroristici, eserciti. L’era della guerra classica tra Stati descritta da Clausewitz lascia il posto all’era della quantum war, «la cui natura viene costantemente ridefinita da nuovi protagonisti, nuove tecnologie e nuove configurazioni di potere, collegate dall’ubiquità, dalla simultaneità e dalla interconnessione di più media». 
I nuovi computer Quantum war significherà anche l’applicazione alla guerra delle immense capacità di calcolo dei computer quantistici, che porteranno l’uso dei droni senza pilota a straordinari livelli di efficacia, automazione e intelligenza (artificiale), al servizio di attacchi sempre più preventivi. Der Derian, 63 anni, direttore del Centro per gli studi sulla sicurezza internazionale dell’Università di Sydney, è figlio di un veterano della Seconda guerra mondiale e studente dell’università del Michigan che fondò il «Progetto Phoenix» per sostenere gli usi pacifici dell’energia atomica, tragicamente sperimentata pochi anni prima a Hiroshima e Nagasaki. Ad Arthur il figlio James ha dedicato il «Progetto Q» per la «pace e sicurezza nell’era del Quantum». 
L’idea è che il mondo si stia avvicinando a una rivoluzione superiore a quella vissuta con la fissione dell’atomo. La teoria del quantum proposta negli anni Venti a Copenaghen da Bohr e da Werner Heisenberg sostiene che i sistemi fisici sono costituiti da probabilità, più che da specifiche proprietà, fino a quando queste non vengano misurate. Alla conferenza di Solvay a Bruxelles, nel 1927, i ventinove più brillanti scienziati del tempo si riunirono per discutere della teoria quantistica e un indignato Einstein si fece capofila dei «realisti» contro i «probabilisti» Bohr e Heisenberg proclamando che «Dio non gioca a dadi». Nei decenni successivi la teoria di Copenaghen ha ricevuto consensi e dimostrazioni scientifiche e oggi l’impostazione quantistica è comunemente accettata, tanto che nel mondo si è scatenata la corsa alla creazione del primo computer quantistico che – a differenza dei bit attuali basati sull’alternativa on/off – funziona sul qubit dove on e off possono coesistere nello stesso istante. Per chi non ha studiato fisica in modo approfondito, avvicinarsi alla teoria dei quanti richiede una buona dose di accettazione fideistica. Un paio d’anni fa il premier canadese Justin Trudeau venne sfidato a spiegare in pubblico che cosa fosse il quantum computing e lui se la cavò dicendo che «i computer convenzionali si basano su 1/0, on/off, mentre lo stato quantico può essere molto più complesso perché le cose possono essere particelle e onde allo stesso tempo. Il quantum ci permette quindi di incastonare molta più informazione in un singolo bit». Quella risposta venne definita un successo, tutto sommato capace di trasmettere il messaggio fondamentale, ovvero che i computer basati sul quantum saranno infinitamente più potenti di quelli che conosciamo oggi. Capaci, per esempio, di violare in pochi secondi qualsiasi sistema conosciuto di crittografia e sicurezza dei dati.
I computer quantistici potrebbero diffondersi nell’arco di cinque anni e «qualsiasi strumento può essere trasformato in un’arma», dice Charles Marcus, uno scienziato di Harvard che a Copenaghen guida la squadra composta da ricercatori dell’Istituto Niels Bohr e di Microsoft impegnata nella realizzazione del primo quantum computer. Altri laboratori per il momento sono in posizione migliore, per esempio Google, Ibm e la startup californiana Rigetti. Ma a Copenaghen, Marcus e i suoi stanno creando qubit usando le particelle teorizzate negli anni Trenta dall’italiano Ettore Majorana, uno dei «ragazzi di via Panisperna». Il loro modo di procedere potrebbe rivelarsi più stabile e meno soggetto a errori, permettendo forse un grande balzo in avanti. 
Il «Project Q»Quando a Copenaghen o altrove il computer quantistico vedrà la luce, gli impieghi militari saranno immediati. Ecco perché Der Derian ha fondato il «Project Q», cercando di sensibilizzare la comunità scientifica sulla necessità di mettere in guardia i leader politici sull’uso potenzialmente catastrofico del quantum computing. Einstein fece lo stesso nel 1939 scrivendo al presidente americano Roosevelt per avvisarlo dei progressi nazisti nell’arricchimento dell’uranio. Il risultato fu che l’America lanciò il programma Manhattan per dotarsi della bomba atomica e usarla per prima. 
Der Derian è un professore sorridente e dotato di una certa autoironia, e ricorda quando nel 1991 partecipò alla seconda conferenza annuale sul cyber-spazio a Santa Cruz, in California: «C’era John Perry Barlow che spiegava come internet sarebbe stata una cosa fantastica per tutti, e io invece usai per la prima volta il termine di cyber-war. Ero scettico di fronte a tanti tecno-utopisti, e in base a questo stesso atteggiamento oggi potrei dire che siamo tutti spacciati di fronte al quantum computing. Invece cerco di fare previsioni catastrofiche ma non troppo». Dai computer quantistici ci si aspettano applicazioni stupefacenti contro il cambiamento climatico o le malattie. 
Quanto alla guerra, sembrano fatti apposta per assecondare e approfondire le tendenze che sono già all’opera da alcuni anni. I droni, per esempio, stanno cambiando modo di funzionamento. «Stiamo passando dalla kill listalla kill chain, non si procede più a partire da una lista di persone da colpire ma gli stessi droni raccolgono l’informazione sul terreno e sono pronti a uccidere obiettivi non fissati in precedenza», dice Mark Hansen della Duke University, che parla di «sovranità diffusa». Per uccidere Osama Bin Laden è stato necessario l’ordine esecutivo del presidente Barack Obama. Per gli altri obiettivi meno importanti dei droni americani, nello Yemen, in Pakistan o in Somalia per esempio, la sovranità – la decisione se colpire o meno – viene esercitata a livello sempre più basso. Si scende la gerarchia verso i soldati, e in prospettiva verso le macchine. 
Due minuti per uccidere«I primi droni – aggiunge Hansen – avevano la possibilità di sorvegliare ed eventualmente colpire un solo obiettivo. Adesso possono raccogliere dati e immagini su più obiettivi contemporaneamente e questo riduce molto il tempo a disposizione per prendere una decisione: stiamo passando da 30-35 minuti a due minuti. Il vero problema ormai non è identificare la minaccia ma scegliere in modo quasi istantaneo la risposta». 
Hansen cita spesso il filosofo Brian Massumi e la sua nozione di ontopower, «potenza ontologica», cioè gli Stati Uniti. Spinoza evocava una natura naturans, il continuo lavoro divino di generare una realtà pronta infine a presentarsi ai nostri sensi come natura naturata. Con la teoria dell’attacco preventivo, con i droni che spesso attaccano non chi ha commesso un atto ostile ma chi in teoria potrebbe commetterlo, secondo Massumi gli Stati Uniti diventano e diventeranno sempre di più una natura naturans che crea la realtà. Hansen cita il caso di Anwar al-Awlaki, predicatore islamista americano-yemenita eliminato da un drone nel 2011, co-responsabile comunque della strage di «Charlie Hebdo» perché prima di morire aveva messo a punto una lista di «miscredenti» occidentali da uccidere tra i quali figurava Charb, il direttore del giornale. Due settimane dopo l’eliminazione di Anwar al-Awlaki, un drone uccise anche suo figlio sedicenne. «Il figlio minore di al-Awlaki non fu un danno collaterale – dice Hansen – ma rappresenta la vittima perfetta. Eliminato perché un giorno avrebbe potuto cercare vendetta, cosa possibile ma non verificabile. Possiamo supporlo, e questo è sufficiente». 
Sorveglianza di massa Nella guerra futura, perpetua e «quantistica» come direbbe James Der Derian, saranno probabilmente le macchine ad avere la sovranità, la facoltà di decidere della morte dei bersagli. I quantum computer potranno allora aiutare a svolgere in modo efficace e spietato il compito di identificare gli obiettivi, in base ad algoritmi che saranno la versione raffinata ed evoluta di quelli oggi in uso per studiare i comportamenti e le preferenze di acquisto dei consumatori. Le guerre dei droni e la sorveglianza di massa andranno mano nella mano. Louise Amoore, studiosa britannica dell’Università di Durham, ricorda che «nel 2016, a Baltimora, la polizia ha fermato decine di persone per impedire loro di manifestare dopo l’uccisione di Freddie Gray», uno dei primi casi di neri colpiti dagli agenti in circostanze controverse. «La compagnia Geofeedia ha usato i dati di Facebook, Twitter e Instagram per elaborare con un algoritmo una lista di persone che avrebbero potuto partecipare alle proteste, e la polizia ha usato la segnalazione per fermare quelle persone in modo preventivo». 
Droni e cellulari Gli algoritmi influenzano le vite degli umani nella pace e lo faranno sempre di più nella guerra, tecnologica e sofisticata per alcuni e rudimentale per altri. Mark Danner, docente a Berkeley e al Bard College dopo una carriera di reporter per il «New Yorker», il «New York Times Magazine» e la «New York Review of Books»,sottolinea che, dopo l’11 Settembre, «le guerre non finiscono». Lo ha scritto nel saggio Spiral: Trapped in the Forever War (Simon & Schuster) e nel suo intervento al museo di Copenaghen sottolinea la paradossale importanza dei garage opener (i telecomandi a infrarossi che servono ad aprire i garage) nelle guerre super-tecnologiche di oggi e probabilmente del futuro, proprio alla vigilia del passaggio all’era quantistica.
Perché una schiacciante superiorità tecnologica, evidente nei droni usati da Bush ma soprattutto da Obama e Trump, non è decisiva? «Gli insorti iracheni hanno affrontato l’esercito più potente del mondo portandolo a una posizione di stallo grazie a ordigni rudimentali azionati da telecomandi per garage o da cellulari. E anche quando gli Usa hanno ottenuto successi militari, come dopo il Surge del 2006, non sono riusciti a trasferirli in una vera stabilizzazione politica. La Forever War, la guerra eterna, significa che Stati Uniti, Al Qaeda, Isis e le altre formazioni jihadiste hanno creato un equilibro che continuerà. Chi non ha un esercito a disposizione usa l’esercito dell’altro attraverso il sistema della provocazione. Gli uomini di Al Qaeda e poi dello Stato islamico in Iraq, sunniti, ricorrono alla violenza contro gli sciiti per provocare la vendetta e reclutare più sunniti di prima».
Il sangue dietro ai chipI droni permettono di non mettere in pericolo i propri soldati, il costo politico è minimo, in questo modo le guerre possono durare all’infinito. Le guerre perpetue non riguardano solo gli Stati Uniti e il Medio Oriente, l’Ucraina è un altro esempio di conflitto che resiste per anni in posizione di stallo. La guerra perpetua, ubiqua, quantistica, burocratizzata e affidata – almeno in parte – ai computer sarà sanguinosa e orribile come e più che in passato, per Caroline Holmqvist, ricercatrice dello Swedish Institute of International Affairs. Uccidere non basta, bisogna annientare la vittima. Un attentatore suicida non si limita a uccidere ma massacra e sfigura i corpi. Il missile sparato da un drone crea un vuoto tale da estrarre l’aria dai polmoni, squassare gli organi interni e frantumare il corpo. La contraddizione dell’umano sempre più civilizzato che uccide membri della propria specie verrà risolta con l’ultra-violenza e il metodo più radicale, cancellando l’umanità del nemico.