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 2018  settembre 23 Domenica calendario

Moravia e il fascismo «idiota»

Esistono le lettere ufficiali, quelle che uno scrittore deve redigere, in una difficile costruzione retorica, se la censura lo colpisce sin dagli esordi, perché il padre è di origine ebraica e i cugini sono Aldo e Nello Rosselli; perché il primo romanzo, uscito nel 1929 con il titolo Gli indifferenti , si presenta al Fascismo come scomodo, in qualche modo offensivo, senza che all’origine vi sia alcuna matrice ideologica.
Sono lettere ufficiali le sei che, tra il marzo 1935 e il marzo 1941, Alberto Moravia scrive a Benito Mussolini e a Galeazzo Ciano in seguito ai provvedimenti del regime prima nei confronti dell’attività giornalistica sulla «Gazzetta del Popolo», interrotta tanto nel 1935 quanto nel 1938, poco dopo la pubblicazione del Manifesto della razza; poi nei confronti del secondo romanzo, Le ambizioni sbagliate (1935). A Moravia viene imposto di non scrivere su quotidiani e riviste e di non vedere le proprie opere circolare liberamente. Su questa corrispondenza, riemersa in anni recenti e pubblicata dapprima alla spicciolata fra il 1993 e il 2007, già si è espresso il curatore dell’opera omnia moraviana, Simone Casini, con uno studio esaustivo su Moravia e il fascismo, dando rilievo al valore storico dei documenti che sarebbe sbagliato giudicare, soprattutto allusivamente, in chiave moralistica: se letta con attenzione, la corrispondenza non riguarda «mai un consenso, un’adesione o un coinvolgimento nell’ideologia o nella politica del regime». Le lettere, nel loro insieme e pur con gli ineludibili compromessi formali dettati dalla contingenza storica, sono una protesta contro ciò che gli vieta di essere uno scrittore e un intellettuale. 
Il florilegio che di queste è stato riproposto solo pochi giorni fa non rende comprensibili le parole di Moravia, sottratte alla complessità storica e così oggetto di una facile strumentalizzazione: a ben guardare le lettere ufficiali servono alla storia ufficiale, a quella di chi allora rappresentava il potere e che traeva forza anche dalla debolezza – e non «prostrazione» – di uno scrittore obbligato a chiedere il motivo del silenzio imposto al proprio lavoro culturale, comunque perseguito sotto pseudonimo. La necessità vitale dell’espressione letteraria si incarna in altri nomi: l’ironico Pseudo, il curioso anagramma Tobia Merlo, Giovanni Trasone e Lorenzo Diodati, e chissà quali altri. 
In questa prospettiva ben si comprende il valore dei documenti, epistolari e non, nati sotto il segno del privato e che una volta riemersi negli scavi ostinati e nelle ricerche, restituiscono la realtà in cui si collocano. Ecco allora che nel fascicolo della Polizia politica intestato a Moravia e alla sorella Adriana – trattenuta dalle autorità fasciste per un’intera nottata dopo una perquisizione nella casa della famiglia Pincherle – scopriamo, accanto alle lettere a Mussolini e a Ciano, diverse carte trascurate per lungo tempo, incapaci di suscitare il medesimo scalpore e invece indispensabili a confermare la posizione moraviana nei confronti del potere. Di fatto è la peculiarità delle vicende familiari che, in molti studi sull’argomento, rende Moravia un caso esemplare sul difficile rapporto tra letterati e regime. 
Nel fascicolo conservato nell’Archivio di Stato di Roma, accanto alla corrispondenza intercettata e presa al vaglio, ci sono le testimonianze dei pedinamenti nei confronti di un giovanissimo Moravia, su cui si raccolgono le prime informazioni all’inizio del 1930: «L’autore de Gli indifferenti è un giovane sui 23 anni. (…) Sugli uomini politici pare dimostri lo stesso indifferentismo che ostenta per le leggi morali. A spiegare l’acidità del suo spirito, può servire la circostanza che egli è stato affetto da tubercolosi ossea». Si tratta di un ritratto tendenzioso che strumentalizza la malattia agli occhi di un regime che gradualmente soffocherà il lavoro personale e le attività che vedono la collaborazione di Moravia, come accade per «Oggi», la rivista diretta dall’amico Mario Pannunzio. Sono inequivocabili le note che, in questo contesto, vengono redatte nel gennaio 1934 per il ministero della Cultura popolare: «Che Moravia non sia fascista non è un mistero per nessuno»; «il Moravia, per sotto le spoglie di “amorfo”, – in politica – non risulta ammiratore del Regime. (…) È d’indole “arrivista”. Molto propenso all’intrigo. Ma non viene ritenuto dotato di grandi doti speciali, e di carattere misterioso, e infido». 
La violenza verbale è ben comprensibile nei confronti di chi, già in giovanissima età, manifesta l’acutezza di uno sguardo indipendente sul mondo. Ne sono un esempio alcune lettere scritte alla zia Amelia Rosselli dal letto del sanatorio a Cortina d’Ampezzo. Dalla periferia dell’Italia cerca di interpretare i grandi avvenimenti, senza semplificazioni, come il delitto Matteotti di cui «nulla è chiaro»; o giudica con preoccupazione le incursioni fasciste nella casa dei Rosselli. Nel 1925 teme che si arriverà presto alla censura e sentenzia che «il governo fascista è un governo che va combattuto fino in fondo; è rattristante per le sorti dell’Italia ma bisogna constatare che siamo in pieno regime paternalista, oscurantista, quietista; non ho mai letto nulla di più grottesco e più idiota che i due discorsi di Farinacci e Mussolini contro l’intellettualismo e la cultura universitaria». Con queste parole Moravia, a 17 anni, si riferisce al discorso pronunciato nel mese di giugno contro il Manifesto degli intellettuali antifascisti. Lo fa nella stessa lettera dove annuncia di aver concluso la prima redazione de Gli indifferenti, romanzo d’esordio di cui i primi recensori subito riconoscono la matrice europea, plasmata in maniera personalissima sui grandi esempi di Dostoevskij, Proust, Joyce, Woolf. Si tratta di modelli assorbiti nelle letture solitarie e grazie alle frequentazioni legate a un milieu intellettuale discreto e appartato, formatosi nella Torino gobettiana, come i raffinati e colti Umberto Morra di Lavriano o Guglielmo Alberti La Marmora. Sono nomi come questi ad aver eluso i confini provinciali di una cultura su cui il regime costruiva la sua idea di italianità. 
I documenti sono necessari alla ricostruzione dei contesti, delle storie private in dialogo con quelle universali, dei laboratori degli scrittori, colti anche nella loro fragilità, nei loro limiti. Ma è sul piano letterario che un autore dev’essere valutato. Il fascicolo del regime su Moravia si apre all’indomani della pubblicazione degli Indifferenti. L’impoverimento umano e culturale messo in scena attraverso i 5 protagonisti si fa allegoria di un’aridità esistenziale ben più vasta di quella rappresentata all’interno della villa degli Ardengo. Per questo motivo Moravia e il suo immediato successo, lontano da ogni intento polemico premeditato, preoccupano il regime. 
Moravia ha sempre dichiarato che le grandi opere oltrepassano le volontà iniziali di un autore; hanno una libertà propria che consente loro di insinuarsi dove la storia ufficiale non arriva o arriva negando la pluralità delle voci. Valorizza dall’inizio una letteratura come espressione delle rimozioni, individuali e collettive. Già da ragazzo sente la necessità di dare veste letteraria ai «lati nascosti dell’animo umano» e, per fare questo, ha bisogno di evadere dalle costrizioni della politica: per difendere quella dimensione artistica in grado di spingersi oltre.