La Stampa, 22 settembre 2018
Aumentare il deficit non basterà a realizzare le promesse elettorali
Entro il 27 settembre sarà pubblicata la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza che svelerà, finalmente, gli obiettivi del governo per il deficit e il debito pubblico per il prossimo triennio. Certo non sapremo tutto. Solo la legge di bilancio per il 2019, che sarà inviata in Parlamento a metà ottobre, ci dirà quali misure il governo intende prendere. Ma la Nota è importante perché definisce la dimensione delle risorse disponibili per il prossimo e per gli anni successivi, cioè lo spazio che ci sarà per accomodare le varie promesse elettorali.
Leggo come voi dai giornali che il ministro Tria vorrebbe un deficit intorno all’1,6 per cento del Pil nel 2019. Chiariamo una cosa. Un deficit dell’1,6 per cento è molto più alto di quanto stava nei piani del governo precedente. Avevamo detto all’Europa e ai nostri finanziatori che il deficit sarebbe stato dello 0,8 per cento del Pil. Ma probabilmente un deficit a questo livello (più o meno invariato rispetto a quest’anno) rassicurerebbe i mercati finanziari rispetto a rischi maggiori e lo spread potrebbe addirittura calare.
Ma un deficit dell’1,6 per cento non lascia spazi per la realizzazione delle promesse elettorali. Facciamo qualche calcolo. Il Documento di Economia e Finanza dell’aprile di quest’anno ci diceva che, senza ulteriori interventi, il deficit sarebbe sceso allo 0,8 per cento del Pil per effetto dell’aumento dell’Iva, già approvato dal Parlamento. Insomma, volavamo col pilota automatico. Da allora sono però successe diverse cose. Innanzitutto, il Pil sta rallentando e se il Pil rallenta le entrate dello Stato rallentano. Inoltre, l’aumento dei tassi di interesse verificatosi dalla metà di maggio gonfia la spesa per interessi. Questi due fattori alzano il deficit del 2019 di almeno lo 0,3 per cento. Quindi da 0,8 il pilota automatico ci porta a 1,1 per cento. Il pilota automatico dovrà però essere in parte disattivato. Primo, nessuno vuole l’aumento dell’Iva. Senza questo aumento il deficit cresce dello 0,7 per cento del Pil (e siamo a 1,8). Secondo, ci sono le cosiddette spese indifferibili: tradizionalmente, il bilancio pluriennale dello Stato non include certe spese che vengono rifinanziate di anno in anno anche se, appunto, sono indifferibili (per esempio, le spese per le missioni all’estero che continueranno a meno di una decisione politica di riportare a casa le nostre truppe). Insomma, il nostro pilota automatico non includeva per il 2019 spese che quasi certamente si verificheranno. Queste valgono uno 0,3 per cento del Pil e vanno aggiunte al sopraccitato 1,8 per cento. Si arriva quindi a 2,1 per cento del Pil. Un deficit all’1,6 per cento (l’obiettivo Tria) allora non solo non lascia spazio alle promesse elettorali (flat tax, reddito di cittadinanza e controriforma Fornero) ma richiede misure dello 0,5 per cento del Pil, ossia per 8-9 miliardi.Guardiamo alle risorse. Un po’ di soldi possono venire dalla spending review. In così poco tempo non si organizza una spending review vera a propria, ma si possono sforbiciare le spese dei ministeri. Insomma, i soliti tagli (lineari?) della spesa per, diciamo, 3-4 miliardi. Qualche risparmio (1-2 miliardi) verrà dalle spese per migranti che scenderanno per la minor presenza nei centri di raccolta e, forse, per il taglio della spesa per migrante che Salvini ha prospettato. Che altro? Le entrate dal condono (pardon, della pace fiscale) potrebbero portare 3-4 miliardi. Sono una tantum ma comunque riducono il deficit (anche se sono irrilevanti per il rispetto delle regole europee che escludono tali entrate). Si arriva così proprio a 8-9 miliardi, quanto serve a portare il deficit all’1,6 per cento. Tria resta contento ma restano scontenti Di Maio e Salvini perché non ci sono soldi per finanziare le promesse elettorali, neppure per iniziarle. Che fare?
Ci sono quattro possibilità. La prima è fare tagli più incisivi: per esempio, si può finanziare l’inizio della flat tax tagliando deduzioni e detrazioni fiscali, ma qui i beneficiari di queste deduzioni e detrazioni si lamenterebbero. La seconda è alzare il deficit (anzi «attingere dal deficit», come ora si dice), ma il rischio qui è la reazione negativa dei mercati. La terza è fare il gioco delle tre carte: si prendono risorse già esistenti e le si riassegnano. Per esempio, il reddito di inclusione diventa il reddito di cittadinanza dopo aver convogliato su questo una parte di altre risorse già stanziate per altre forme di lotta alla povertà. Oppure si cancellano gli 80 euro di Renzi e si usano le corrispondenti risorse (9-10 miliardi) per finanziare la flat tax. O si usano per lo stesso scopo le risorse già messe a bilancio per l’Iri, che a partire dal 2019 doveva portare benefici a piccole imprese e lavoratori autonomi. Quarto, si può pensare a interventi più creativi. I governi, talvolta, quando messi alle strette ricorrono a tante operazioni poco trasparenti che riducono temporaneamente il deficit a scapito di maggiori deficit futuri. Ma per questo aiuterebbe magari qualche ricambio nei tecnici del Mef (sarà un caso che si torni a parlare di questo sui giornali in questi giorni?). Insomma, i conti ancora non tornano e non c’è da meravigliarsi se i toni restano ancora accesi all’interno della coalizione di governo.