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 2018  settembre 22 Sabato calendario

Cuffie e smartphone, il calcio all’età del muto

«Spogliatoio!», gridava Totò vestito da donna a un incredulo Luigi Pavese colpevole di “spogliarlo” con lo sguardo. La parola è tracimata. Sulla Treccani “spogliatoio” è diventato anche un sinonimo dello spirito di corpo di una squadra, la coesione di un gruppo composto da corpi e anime, soprattutto di anime. Quello che in pratica Totti ha spiegato non esistere quasi più: «Se non parli inglese non capisci più niente». E se non capisci più niente i tuoi compagni smettono di essere degli interlocutori. E pensare che lo spogliatoio della Roma era rimasto uno dei pochi, sino a qualche anno fa, a conservare un’identità ben definita, una sua lingua, che non era neppure l’italiano, bensì il romano, come ricorda anche Andrea Stramaccioni. Non a caso al 41enne Simone Perrotta, che della Roma fece parte ai tempi del primo Spalletti, ciò che più manca del calcio abbandonato è «l’atmosfera dello spogliatoio», il luogo in cui si pratica, o meglio si praticava, una sorta di psicoterapia di gruppo necessaria e a volte spietata dalla quale emergeva quelGemeinschaftgefühl, quella solidarietà fra compagni che al Bayern costò la panchina ad Ancelotti. «La strada è senza ritorno», ammette Massimo Mauro, che non ha difficoltà a immaginare migliaia di spogliatoi dove ragazzini già vestiti per entrare in campo o fradici per avere appena smesso di giocare si chiudono in se stessi, chattano, sono solo corpi sotto cuffie gigantesche o auricolari invisibili che sparano musica a palla e rendono superfluo il mondo circostante. «La strada è senza ritorno perché i tempi che viviamo ci portano sempre più a contatto con la tecnologia, soprattutto i giovanissimi», prosegue Mauro. «Ma il problema non è solo questo. È vero: le cuffie chiudono i mondi. Però manca un cuore di partenza, una lingua comune. Il senso di appartenenza non lo si può inventare dal nulla.
Io credo che la multiculturalità sia un patrimonio straordinario, nella vita civile come nello sport, ma con degli effetti collaterali da accettare: la babele dei linguaggi, il non capirsi subito. Ci vuole tempo e il calcio non ne offre. La Francia ha vinto il Mondiale con la forza fisica e non con un progetto “umano”. E per vincere così non c’è bisogno del “vecchio spogliatoio"». Così gli spogliatoi ridiventano stanze o stanzoni: «Se non sai come dirla una cosa, alla fine rinunci a dirla», dicono gli psicologi. E se Bonucci fosse stato ripreso anche per tornare a rafforzare l’identità “italiana” della Juventus, per dare anche a Ronaldo una “casa” più solida? «Il calcio è esterofilo ovunque, ossia si costruiscono gruppi senza un punto di partenza e questo in ogni parte del mondo. È il rischio che si corre. Anche il Chievo non ha più un gruppo “base"», prosegue Mauro. Per parlarsi tra di loro, i nazionali svizzeri si esprimevano in italiano perché quasi tutti l’avevano imparato giocando in Italia: funzionò in Brasile nel 2014 ma era un rimedio estremo. Una matrice “storica” dentro uno spogliatoio è la carta assorbente, è ciò che risolve le difficoltà: «Senza uno spogliatoio dalla forte identità, al Napoli non avremmo attutito i comportamenti di Maradona». Le grandi squadre le fanno i giocatori, ma anche gli allenatori di grande cultura, intelligenza e umanità capaci di gestire gli uomini: «Come Trapattoni e Bigon, i due tecnici con cui ho vinto lo scudetto alla Juventus e al Napoli», conclude Mauro. Una suggestione in più da Marco Di Vaio, club manager del Bologna: «Il frequente isolarsi dei giovani calciatori dipende anche dal fatto che loro, più di quelli della mia generazione, diventano professionisti precocemente e hanno più cose su cui riflettere anche a 15 anni, hanno più stimoli e più verifiche, quindi con le cuffie in testa si concentrano di più su ciò che gli è stato chiesto». E l’amicizia nello spogliatoio? «Non è quella che fa vincere», riconosce Dino Zoff. «Certo può esserci, ma non è così che vinci. La palla devi passarla anche a chi non ti è amico. In più i giocatori adesso vanno e vengono e spesso non fanno proprio in tempo a diventare amici, Anche volendo».