Come sta?
«Fortunatamente ora sono a posto. È successo che durante la registrazione di questo album ho scoperto che dovevo operarmi per rimuovere un tumore prima che degenerasse in una situazione più seria. Sono stato davvero molto fortunato a prenderlo per tempo. In quel momento non ho detto nulla perché non c’era motivo, il fatto è che poi sono tornato al lavoro troppo presto, non calcolando bene l’energia di cui avrei avuto bisogno. Arrivato a metà del tour i nodi sono venuti al pettine».
Il nome Elvis lo scelse per lei il suo primo manager.
«Si era convinto che trattandosi del nome di un morto celebre il pubblico avrebbe ascoltato con un’attenzione diversa».
C’è ancora chi sostiene che Costello, il cognome di sua madre, abbia origini italiane.
«Niente affatto, non c’è nessun italiano nella mia famiglia, anche se ovunque io vada pensano che io sia italiano. Dell’Italia però mi piace tutto, a cominciare dalla musica: adoro Mina che ho campionato nel pezzo When I was cruel No. 2, ho scritto e lavorato con Zucchero, sono stato in tour con Carmen Consoli, ho anche cantato una canzone in italiano, Dio come ti amo di Modugno, con la cantante spagnola Vega per un album di canzoni del Festival di Sanremo: riascoltarmi mi fa molto ridere».
In "Look now" tira aria di musical, è d’accordo?
«Anche se non si può parlare di musical, perché l’album non racconta una storia soltanto, è certamente vero che ci sono canzoni dal sapore teatrale, mi riferisco alle due scritte con Burt Bacharach. Una decina di anni fa ci fecero la proposta di lavorare ad un musical tratto dall’album Painted for memory che avevamo registrato insieme dieci anni prima. E così cominciammo a scrivere anche del nuovo materiale. Di solito i musical che utilizzano canzoni già famose raccontano la vita di chi le ha scritte, succede ad esempio nel musical sui Queen, o in Mamma mia! degli Abba. Nel nostro caso volevamo restare nel modo tradizionale di lavorare ad un musical, scrivemmo una storia e cercammo di collegare a quella storia le canzoni scritte per l’album ma non funzionò, la storia continuava a prendere direzioni diverse. Scrivemmo anche dieci nuove canzoni ma il problema fondamentale fu che erano malinconiche e lente, senza nessuna possibilità di sostenere un balletto o un gran finale.
Risultato: nessuno se la sentì di allestire lo spettacolo. Restavano però quelle canzoni e così due anni fa ho chiesto a Burt di poterle registrare».
Tutto l’album è molto diverso rispetto ai precedenti.
«Non volevo un album di rock’n’roll, con gli Imposters (la sua band, ndr) avevamo già dimostrato di saperlo fare. Pensavo ad una grande sezione ritmica e a ricche orchestrazioni. Lo definisco un "uptown pop record", un disco pop da quartieri alti, molto più sofisticato di un classico album rock».
Il brano "Burnt sugar is so bitter" ha qualcosa dell’ultimo Bowie ma si ricollega anche al periodo di Ziggy Stardust per l’attacco che ricorda "Life on Mars?": è una somiglianza voluta?
«Davvero si somigliano? Non ci avevo fatto caso. L’ho scritta insieme a Carol King, andrebbe chiesto anche a lei, io oltre al testo ho scritto solo la musica del ritornello. Non ho mai desiderato assomigliare a nessuno, so che in Inghilterra molti l’hanno fatto ma non è il mio caso. Amo la musica di Bowie e credo che quella contenuta nei suoi due ultimi album sia bellissima: pensare poi che l’abbia concepita mentre difendeva con dignità la sua privacy sul suo reale stato di salute, senza dire a nessuno quanto fosse grave, lo rende ancora più grande. Abbiamo trascorso un paio di serate insieme, avrei voluto conoscerlo meglio ma purtroppo non è successo: nei miei primi tour la trilogia berlinese era un mio ascolto costante».
In una recente intervista McCartney ha detto che pensava di utilizzare l’"autotune" ma gli è sembrato di sentire un suo rimprovero: era a conoscenza di essere la sua coscienza critica?
«Molto divertente. Scrivere canzoni insieme a Paul è stata una grande esperienza e molti dei brani di Flowers in the dirt li abbiamo anche prodotti insieme senza però avere la stessa idea di produzione: non eravamo mai d’accordo sugli arrangiamenti».
McCartney ha anche raccontato che lavorare con lei gli ha ricordato il sodalizio con Lennon. E che con John lei condivideva una certa aggressività, tipica di chi porta gli occhiali.
«Credo che con il riferimento ai Beatles abbia voluto farmi un complimento. Ma le cose tra noi sono andate in un modo molto diverso: loro si sono incontrati a 16 anni, sono cresciuti insieme e sono diventati la più grande band del mondo scrivendo sempre insieme le loro canzoni. Per quanto riguarda l’aggressività, io non sono affatto aggressivo. Forse la cosa può essere spiegata così: se si osservano le sue foto, all’inizio dei Beatles Lennon quand’era in pubblico non indossava mai gli occhiali, e così dietro le quinte per guardare le persone tendeva ad allontanarsi e ad inarcare la schiena per vedere meglio: è questo che ti fa sembrare aggressivo. Può essere successo lo stesso anche a me».