Che è al secolo Michele Rech, 35 anni, e una faccia (e i vestiti, e la magrezza, e l’appartamento disordinato) di uno studente: ribelle per definizione, introverso e insicuro come pochi. E che pure, malgrado la sua disarmante timidezza, ha scelto di vivere raccontando sé stesso.
Mai stato visibile come adesso.
Sei reduce dal successo di "Macerie Prime" 1 e 2, sei finito sulla copertina de "l’Espresso" come maître à penser della sinistra. E mentre progetti di fare un cartone animato esce in sala "La Profezia dell’Armadillo". L’hai visto?
«Certo, non posso dire di no».
E allora?
«Diciamo che un film è un lavoro collettivo, è la visione di una storia con gli occhi del regista e degli attori. Il mio modo di raccontare quella storia sta nel fumetto.
Quello del regista sta nel film».
Capisco. Però all’inizio eri molto più coinvolto. Cosa è successo?
«L’idea nasce da Valerio Mastandrea, doveva essere la sua opera prima da regista. Ci siamo messi a scrivere la sceneggiatura con lui, Oscar Glioti e Johnny Palomba. Ma poi ci sono stati un sacco di intoppi, tutto è rallentato troppo. Valerio si è dovuto sfilare perché aveva altri impegni, e anche la mia finestra di tempo si era chiusa. Poi il film è andato avanti per suo conto. Ma è giusto così. I film li fanno i registi».
Torniamo alla mostra. Sarà abbastanza imponente. Qui in casa sei circondato di cartelline sparse in tutte le stanze, per terra, sul letto, sui tavoli, in salotto: contengono gli originali dei libri, dei blog, i poster e le copertine dei dischi underground e punk, i manifesti per i cortei e i centri sociali. Forse arriverai a esporre oltre 600 disegni.
Praticamente tutta la tua vita in mostra. Non è un problema per te l’esporti così tanto?
«Sì, sempre stato. Ogni volta che mi fanno una proposta, che sia un’intervista o pubblicare una storia su un giornale o fare qualcosa in un museo, il mio primo pensiero è: quanto stress mi procurerà questo impegno?
Me ne dovrò vergognare dopo?
Ma in questo caso no, questa mostra è molto più aderente a me di tante altre cose che ho fatto.
Esporrò non solo tavole che appartengono a me, ma che appartengono ad un sacco di persone e fanno parte di una storia collettiva. Come, ad esempio, i disegni per la morte di Renato Biagetti ucciso dai fascisti a Focene o i manifesti per i gruppi punk e per i centri sociali, stampati 10-15 anni fa: ecco, nella mostra ci sono dentro le vite di tante persone. Ho pensato che magari oggi qualcuno può non aver piacere di stare in un museo. Quindi li ho sondati».
Vuoi dire che hai chiesto il permesso al tuo mondo, alla "tribù", come la chiami in mostra?
«Beh, sì. Ho fatto un post su Facebook (270mila seguaci, ndr).
Ho scritto: so che abbiamo nella nostra comunità sensibilità frastagliate e diverse e magari non tutti vogliono finire in un museo e su un catalogo. Se qualcuno non vuole starci, dunque, me lo dica. E lo tolgo dalla selezione».
Risultato?
«Niente, per ora nessuno ha detto di no. Anzi qualcuno mi ha anche scritto: mi raccomando, ricordati di noi, se non trovi la copertina del disco te la rimandiamo…».
Resta la domanda. Perché in un museo? È un luogo istituzionale, che cambia fruizione e funzione del tuo lavoro.
( Ride). «E chi lo sa? Dovresti chiedere a Silvia Barbagallo che ha avuto l’idea, me l’ha proposta e che con la sua associazione Minimondi Eventi produce la mostra insieme al Maxxi. Ma posso rispondere così: il senso dell’operazione è mettere insieme 18 anni di lavoro. Posso far vedere tutto quello che c’è dietro i miei libri. Porto alla luce il mondo in cui sono cresciuto, gli ambienti che mi hanno formato umanamente, politicamente e culturalmente.
Spesso chi mi legge fa finta di non vedere da dove vengo».
Cosa ti aspetti? Di scoprire un altro pubblico, o di portare il tuo pubblico in un museo?
«Non lo so proprio. Forse a una parte dei miei lettori non piacerà tutta la prima parte del mio lavoro. Alcune tavole sembrano preistoria, andrebbero spiegate. Ad esempio le immagini di gente con i fazzoletti e i cappucci in testa. Io penso che molti oggi proprio non capiscono chi erano e cosa facevano quelli che ho disegnato. È un immaginario estetico scomparso. Non parlo mica degli anni ’ 70: erano i primi anni del Duemila e sembra un’altra era. Ma io vengo da lì, e non rinnego nulla. Come dice il poster sul G8 di Genova: " In ogni caso nessun rimorso". Sai, io ho vissuto tutta la vita con l’ansia della sindrome dell’impostore » .
Cioè?
«C’è tutto un mondo, diciamo un mondo ufficiale, che mi accoglie, mi vuole tanto bene ma contemporaneamente vorrebbe mandare in galera gli amici miei.
Questa mostra sancisce e racconta anche questo».
Un po’ complicato essere Zerocalcare...
«Complicato, sì».
Sei stato attento persino agli sponsor.
«Niente multinazionali e cose così. Non volevamo presenze in antitesi con il senso della mostra. Ci sostengono sponsor etici: Banca Etica e Action Aid».
Un cuore ingrugnito e assediato campeggia nel manifesto che lancerà la mostra. Ma come mai manca ancora il titolo?
«C’era, ma abbiamo dei dubbi. Io volevo che il titolo fosse: "Alzare muraglie, scavare fossati, nutrire coccodrilli". Rappresentava perfettamente lo stato d’animo, psicologico e politico, che sento molto. Ma, purtroppo, sembra anche l’apologia di Trump e Salvini. È una tragedia: sembrano diventati loro i padroni della rabbia e dell’incazzatura. Hanno appaltato tutto il campo semantico del rodimento. E a noi rimangono solo l’ideologia fricchettona e il pensare positivo. Questa roba non mi rappresenta.
Non possiamo solo parlare di pace e amore. Sarebbe terribile».