Corriere della Sera, 22 settembre 2018
Fabio Volo autobiografico
Fabio Volo che interpreta se stesso senza essere se stesso. È il cortocircuito metatelevisivo di Untraditional 2, seconda stagione della serie (al via martedì 25 su Comedy Central) in cui l’attore-non attore racconta il suo sogno: produrre una serie tv ambientata a New York.
Dunque Fabio Volo, interpreta se stesso perché non sa recitare?
Ride. «In realtà è molto più difficile fare se stessi che recitare. Perché non devi interpretare un ruolo, devi sembrare naturale e anche chi ti sta intorno deve sembrarlo. Nella serie il mio agente è un amico che vende impianti stereo».
«Untraditional» è girata come un mockumentary, ovvero un finto documentario.
«È lo specchio di quello che capita davvero nella realtà. Rispetto agli altri Paesi del mondo in Italia il problema è che se proponi un progetto ti dicono subito di sì, sono tutti molto gentili e disponibili. Poi al momento del dunque si inizia con i vedremo. È anche la storia di un uomo che combatte tra famiglia e lavoro, un tema comune a molti: se ti dedichi troppo alla famiglia rischi di non essere competitivo sul lavoro; se ti butti sul lavoro ti ritrovi con un figlio adolescente che non sa nemmeno che sei suo padre».
E lei come vive tra famiglia e lavoro?
«La paternità mi ha cambiato. Ho imparato a relativizzare tutto: prima per me il lavoro era centrale; adesso una birra con un amico vale come 10 giorni in Messico quando ero single».
È un prodotto per la pay tv. Si sta meglio senza ansia da Auditel?
«In realtà è una serie che non mi conviene fare. Sarebbe molto più vantaggioso se mi mettessi ad aprire e chiudere pacchi (il riferimento è ad Affari tuoi, ndr)».
Non la attira la tv generalista?
«Ho tante richieste da Rai e Mediaset, ma alla fine ti propongono solo di intervistare qualcuno. In Italia il David Letterman è impossibile, là hanno Obama, un mondo dello spettacolo mondiale; qui non hai gli ospiti per fare programmi così. Luttazzi era bravissimo ma poi gli toccava invitare uno come me...».
Cosa non le piace della tv di oggi?
«La regola è che non c’è posto per le cose nuove. Tornano format come Portobello o La Corrida per rincorrere l’effetto nostalgia. La sindrome del ricordo non c’è solo in tv, ma anche in politica e nel costume. L’Italia è una barca dove stanno tutti a poppa a guardare il golfo, mentre nessuno guarda dove stiamo andando. Lo diceva Bauman parlando di retrotopia, l’attitudine a collocare nel passato – e non nel futuro – l’immaginazione di una società migliore. Quando il futuro è incerto e ti spaventa, ti rassicura il passato. Io sto a prua, a un certo punto arriverà qualcuno».
La differenza più grande rispetto a quando ha cominciato?
«La gavetta. Ora la palestra è YouTube, che è una tana delle tigri. Oggi nessuno ti insegna niente. Quando ho iniziato in radio Cecchetto mi mise a fare la pianta: mi disse di mettermi in un angolo e ascoltare. Dopo un po’ mi fece fare delle prove che non andavano in onda. Quando fui preso alle Iene all’inizio non andavano così bene, ma insistettero per tre anni. Adesso vai in onda tre mesi: o fai risultato o fai flop».
Tre lati positivi e tre negativi del suo carattere?
«Posso telefonare a casa?... In positivo diciamo che sono curioso; sono determinato; sono uno che ascolta. In negativo che dico sempre di sì perché ho paura che i miei no offendano; mi annoio facilmente; detesto le riunioni».
Fa tv, radio e cinema, scrive libri. Cosa preferisce?
«Mi piace scrivere, mi piace star da solo in una stanza. Sono sempre stato così, ma con l’età sto diventando sempre meno socievole, anche se non sembra».
La politica che sentimenti le suscita?
«Sono un deluso, ma ormai da molti anni. Oggi si parla tanto di immigrazione e poco di quelli che se ne vanno. Non si investe sul futuro e il dibattito è incentrato sui supermercati aperti o no alla domenica. Si dice sia per tutelare la famiglia, ma se una coppia è in crisi, almeno uno dei due esce di casa senza aspettare il lunedì».