Corriere della Sera, 22 settembre 2018
A Tripoli, dove avanza la marcia di Haftar
Non è una vera guerra. Almeno, non lo è ancora. Si tratta piuttosto di una caotica guerriglia fatta di milizie che si muovono in ordine sparso, senza comandi centrali, senza disciplina, senza piani precisi, se non quelli di approfittare di un momento di debolezza nell’altro campo per guadagnare una strada, un edificio più alto, un’area di viuzze strette dove dispiegare posti di blocco temporanei. Non c’è un fronte definito, le linee mutano di continuo. Da una parte della città la gente muore sotto le bombe, chiede aiuto alla Croce Rossa per uscire con corridoi umanitari dalle cantine delle abitazioni assediate, ma nei quartieri vicini si va a fare la spesa come se nulla fosse e i caffè sono frequentati quasi come al solito.
Anche ieri c’erano tante famiglie a godersi il sole sulla spiaggia di Tripoli e insistevano nel fare il bagno nelle acque inquinate dalle fogne a cielo aperto, che ormai da anni senza più filtri ammorbano le coste. Una delle tante conseguenze dello sfascio dello Stato. Non esistono postazioni fisse, se non le caserme sporche e disordinate delle milizie che dal 2011 occupano quelle che furono degli uomini di Gheddafi, senza peraltro aver mai portato modifiche significative.
I guerriglieri della rivoluzione assistita da «mamma» Nato oggi hanno sette anni di più. Erano ventenni allora. Adesso sono quasi trentenni. Tanti sono andati a casa, stanchi della trasandatezza e della precarietà che comporta la vita del soldato di ventura da queste parti. Qualcuno però è rimasto, visto che il ministero dell’Interno del governo di Fayez Sarraj ancora li paga e per molti resta l’unica possibilità di reddito in questa Libia sempre più povera e disoccupata. Ma le nuove leve non sembrano molto diverse da quelle vecchie. Dormono quando hanno sonno, rubano ai posti di blocco se devono pagarsi il caffè o comprarsi le sigarette. Si prendono le auto di chi, a loro dire, non ha i documenti in regola e poi minacciano con i mitra dal colpo in canna quelli che tornano per protestare.
Giovedì sera siamo andati a vedere la battaglia da vicino e abbiamo trascorso la notte con la famiglia Mabruk nel quartiere di Ain Zara, 15 chilometri dal centro città e molto vicino ai cinque punti di maggior scontro: Abu Selim, Salahaddin, Khaled Farjan, Wadi Rabia e Trigmatar. È una zona di abitazioni di cemento grezzo, squadrate, al massimo alte tre piani, quasi tutte circondate da orti e giardini inverditi con alberi da frutto, olivi, limoni, datteri. «Prima la Settima Brigata di Tarhuna legata al campo del generale Khalifa Haftar pone fine al caos anarchico delle milizie e meglio è. Noi siamo stanchi e offesi dall’anarchia violenta che investe la Libia. Ma dopo, quando finalmente Sarraj e il suo codazzo di soldataglie corrotte se ne sarà andato, inevitabilmente dovremo far fronte alle aspirazioni dittatoriali di Haftar. Lui e i suoi figli devono sapere che in Libia non c’è più posto per un nuovo Gheddafi», diceva il capofamiglia Adel, un 72enne ex funzionario del regime che ormai come tanti non nasconde più il desiderio di ordine e di un forte governo centrale. Si cena come sempre divisi tra maschi e femmine.
Uno dei figli ha trascorso sei ore in coda per riempire il serbatoio dell’auto e trovare una bombola per gas da cucina. Loro ancora non fanno incetta di cibo. Ma sono pronti ad evacuare verso il centro in pochi minuti. Quando finalmente arriva la corrente elettrica dopo 12 ore di black out la pompa riesce a riempire la cisterna dell’acqua sul tetto di casa dal pozzo che hanno in giardino. Alle sette e mezza di sera si vede il cielo illuminato dalle esplosioni verso l’aeroporto e l’area del vecchio carcere di Abu Selim. Per telefono parlo con Osama Alì, un medico che sta in prima linea con le milizie. «Abbiamo già nove morti e una ventina di feriti. Il problema è che le ambulanze vengono fermate da gruppi armati che poi le usano per i loro spostamenti. Stiamo cercando di fare evacuare 400 famiglie intrappolate. Ma nessuno replica agli appelli di cessate il fuoco», dice di fretta. Con un’aggiunta: «Abbiamo le medicine necessarie. Ma non riusciamo a raggiungere i feriti». Alle ventuno improvvisamente tutto si placa. Si sente qualche pianto di bambino, il belare di pecore. In strada transitano soltanto velocissimi i pick-up con le mitragliatrici pesanti montate sui cassoni. Traffico civile zero. Da un’ora è stato anche spento il grosso incendio appiccato dai mortai che avevano colpito una centrale elettrica e alcuni depositi di carburante.
Ma attorno a mezzanotte i rombi riprendono più minacciosi che mai. La terra trema di continuo. Sono in azione artiglierie leggere, l’orizzonte stellato si illumina di traccianti. Si ode il ronzare persistente dei droni utilizzati per le osservazioni dal cielo. Emerge così la nuova composizione delle forze in azione. Le due milizie più forti nel campo di Sarraj si stanno facendo la guerra. Quella di Abdel Ghani al Kikli, nota come Ghnewa, sta sparando contro la Sumund, comandata da Salah Badi, uno dei leader più noti di Misurata. La Ghnewa è ben trincerata nella zona dello zoo e del vecchio hotel Rixos, pare riceva ricchi finanziamenti dalla Turchia. Invece in queste ore restano a guardare gli uomini della potente Rada di Abdel Rauf Kara, che controlla sia l’aeroporto che l’adiacente carcere, dove sono rinchiusi centinaia di pericolosi militanti di Isis catturati anche durante la battaglia per Sirte due anni fa. Con loro sono anche quelli della milizia di Tripoli di Heithan Tajuri, uno dei vecchi capi carismatici della rivolta del 2011.
Tra i pareri più diffusi domina quello per cui sia Kara che Tajuri, al momento al riparo negli Emirati Arabi Uniti, siano in fondo pronti a un compromesso pur di salvare le ingenti somme personali nelle banche all’estero. Spiega per esempio Adel Taguri, alto funzionario del ministero della Sanità di Tripoli: «Questa è tutto tranne che una guerra tra ideologie. Le milizie si alleano pragmaticamente con chi paga di più. Per questo motivo le alleanze si tessono e sfaldano tanto celermente». E infatti con le luci dell’alba giunge notizia per cui adesso la Rada sarebbe entrata in campo a fianco delle altre contro quelli di Tarhuna. Ma restano del tutto irrisolte le altre faide.
Lasciamo il quartiere nella calma quasi completa alle otto di ieri mattina, mentre le radio diffondono il bilancio degli ultimi scontri: una decina di morti nella notte, almeno la metà civili, che si aggiungono agli oltre 140 dall’inizio di questa ondata di scontri il 28 agosto, quando la Tarhuna si è attestata in periferia. Oltre il doppio i feriti. Nel pomeriggio la Brigata Tripoli annuncia che lancerà un’offensiva «dura e finale» contro la Tarhuna. Gli scontri sono ripresi ieri sera. Ma intanto Haftar avanza ancora. Per la prima volta 4 giorni fa le auto color caffelatte della sua polizia, le stesse del tempo di Gheddafi, hanno fatto comparsa in città con stampigliato in rosso lo stesso simbolo che si legge a Bengasi: «Esercito Nazionale Libico». Sono attestate nella zona del Centro delle Comunicazioni e nel centralissimo quartiere di Trigasur. Sono scortate dai gipponi delle milizie, che però non si fanno riconoscere. «Haftar sta penetrando lentamente a Tripoli. Approfitta delle divisioni delle milizie vicine a Sarraj. Ma vorrebbe anche evitare di prendere la città con un bagno di sangue. Sa che l’era di Sarraj è ormai al lumicino e che, almeno per ora, il tempo è dalla sua parte», spiega Sami Khashkusha, docente di Scienze politiche alla facoltà locale.
Nel quartiere di Al Ghourgi, sulla strada costiera verso la Tunisia, sono apparsi sui muri manifesti colorati con l’immagine di Haftar: inneggiano al «nuovo capo dell’esercito unito». Le milizie neppure provano a strapparli.