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 2018  settembre 20 Giovedì calendario

A Firenze, i primi 50 anni di carriera di Marina Abramovic

A 72 anni, ma ne dimostra parecchi meno, la più celebre performer al mondo, Marina Abramovic che nel 1974 ha inventato questo tipo di arte, un’icona riconosciuta della modernità, è sorridente, disponibile, alla mano. Nessuna domanda le giunge scomoda, o la mette in crisi, mentre a Firenze, a Palazzo Strozzi, apre la prima retrospettiva in Italia su mezzo secolo di carriera. Eventi in cui l’arte è lei, il suo corpo, la sua presenza, che si esibisce e si mette in gioco. Assai spesso, anche nuda.
«Quale tra le mie performance ricordo di più? Nessuna. Non amo pensare al passato: è l’unico momento in cui mi sento vecchia». 
Infatti: sembra assolutamente più giovane pure d’aspetto, e non si è rifatta nulla. 
«Amo la vita e voglio sempre giocare. Alla mia età, la depressione è un lusso che non possiamo permetterci. Poi, il mio amore da un anno e mezzo, ne ha 21 meno di me. È ora di cambiare qualche regola sociale, alcuni costumi: basta che a essere più giovani siano sempre le donne. Il mio modello, e obiettivo, è la moglie di Macron».
Mai avuto problemi di stalking?
«No, mai successo. Ma io gli avrei tagliato le palle. A proposito: giovanissima, in accademia, mi dicono che chi non le ha, non può fare arte. Non avevo capito che fosse una metafora, e ho pianto tantissimo. Poi, credo di aver dimostrato, eccome, di possederle».
Ha cominciato da giovanissima nella sua Jugoslavia...
«A 14 anni; però ero gelosa di Mozart, che aveva iniziato a sette».
L’artista di tutti i tempi che vorrebbe conoscere?
«Van Gogh. Mi procura forti emozioni. I suoi quadri sono energia atomica dipinta; la sua vita e la sua arte sono la medesima cosa, assolutamente sovrapponibili»
Il luogo in Italia che ama di più?
«Ho avuto per quattro anni una casa a Stromboli. Per il corpo, è importante essere sul luogo da cui scaturisce l’energia».
E Roma?
«Uno dei luoghi più difficili per viverci. Si sta sulle tombe di troppe civiltà. Per un artista, temo che sia un po’ claustrofobico».
Le città in cui ha abitato, Parigi, Amsterdam, New York, eccetera, le ha scelte per l’arte e per la sua vita?
«In due mi sono trasferita per amore. L’artista deve stare in un posto scomodo: perché così libera energia. Ora, con Trump, New York non potrebbe essere peggio. La felicità non è creativa: occorre la sofferenza».
Come nascono le sue performance, dove, quando?
«All’improvviso: quando non me lo aspetto. In bagno; pure in sogno. Meno a studio: io lo odio. Mi trovo davanti agli occhi un ologramma a colori. Ci penso e ripenso. Ma quanto mi è venuto in mente, devo realizzarlo quando comincio a odiarlo».
È tra i pochi che non si fanno dei selfie...
«Sono imbecille sulla tecnologia; e non considero Istagram un’arte».
La sua prossima performance?
«Alla Royal Academy di Londra, nel 2020. Ma non voglio anticipare nulla».
Qui, in mostra, ci sono quasi tutte le sue del passato. Alcune, filmate e proiettate; altre, ripetute ora: una assistente, tempo fa, ha compiuto un casting, addestrato 34 persone. Una ragazza balla nuda, finché ce la fa, al suono di un tamburo. Subito, ci accolgono un uomo e una donna, pure nudi, di fronte tra loro; chi vuole, ci passa in mezzo. Si vede la prima lavatrice di casa, comperata in Svizzera (i suoi potevano: amici di Tito), in cui lei si chiuse un dito. I quadri dell’esordio: perché una volta dipingeva. Le prime performance: mano aperta sul tavolo e coltello che si ficca negli esigui spazi tra le dita; un microfono raccoglie i lamenti di quando si feriva.
E avanti così; spesso in Italia: Napoli, Roma, Bologna. In un angolo, un mucchio di ossa («bovine, trattate per mesi, per evitare gli odori», dice Ludovica Sebregondi) sono la memoria di lei che, per quattro giorni sei ore al giorno, le ha ripulite alla Biennale di Venezia, meritandosi il Leon d’oro nel 1997. In un video che eterna una di queste esplosioni d’arte, anche il padre e la madre: quando lei inizia a danzare, lui impugna una pistola, e lei si sbarra gli occhi; evidentemente, ricordi di casa. In una è Santa Teresa; al Museo dell’opera del Duomo, si fa la Madonna di un splendida Deposizione, detta Anima Mundi; in un video, urla per te ore, finché non perde la voce. Spiega Cristina Acidini: «Enorme famigliarità con i maestri antichi»; dice il curatore, Arturo Galansino: «È la prima volta in cui i suoi lavori, nel palazzo, si sposano al rinascimento».
Per 13 anni, dal 1975, suo compagno di lavoro e vita è stato il tedesco Ulay (Frank Uwe Laysiewpen): vivevano su un furgone con megafono, che è qui. L’ultima performance (nel 1988) li ha visti camminare ognuno 2.500 km: si sono ritrovati sulla Grande Muraglia, partendo dai suoi poli opposti. In origine dovevano sposarsi. Ma tarda da anni il permesso cinese: quando lo hanno, all’arrivo si lasciano per sempre; camminare per 2.500 km e dirsi addio. Lei muta città. «Per sette anni non ci siamo parlati»: un processo, lui le porta via molto. «Sono andata in un tempio indiano, 36 ore di viaggio, a meditare e riprendermi. Arrivo, e ci trovo Ulay, con la moglie: un segno del destino. Ci siamo riappacificati, stiamo scrivendo un libro insieme». Ulay, alla presentazione, è in prima fila, ospite d’onore.