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 2018  settembre 20 Giovedì calendario

Marina Abramovic a Firenze

Incontriamo Marina Abramovic all’opening della mostra «The Cleaner» a Firenze: pelle perfetta, trucco curato, treccia di rigore, di nero vestita.
Come fa a essere sempre «così tremendamente Marina Abramovic»?
«(ride) Ci vuole metodo: mi sveglio alle 7, faccio esercizio, mangio sano. Un po’ come gli atleti».
Perché ha scelto l’Italia per fare pulizia dei suoi lavori?
«Perché è qui che tutto è cominciato: da Belgrado, da ragazzina, prendevo il treno con mia madre per venire a Trieste a comprarmi i jeans. Ho imparato presto a conoscere l’arte italiana e con voi ho in comune il carattere un po’ melodrammatico».
Ha fatto ordine tra i suoi lavori, per mostrare, in cinquant’anni di carriera, ciò cui tiene veramente e ciò che può lasciare andare. A che cosa non rinuncerebbe mai?
«All’amore. Da un anno e mezzo sono felice: ho trovato la persona giusta. Lo capisci, quando succede... (Mentre parla, mi prende il taccuino e disegna due cerchi che si sfiorano e poi due cerchi, concentrici, uno dentro l’altro) Nel primo caso c’è equilibrio, nel secondo caso, se uno si rompe, implode anche l’altro: per molto tempo ho vissuto dentro questo secondo cerchio».
A lungo ha condiviso la pratica artistica con Ulay, che anche oggi ha voluto essere presente all’inaugurazione: lo sa che il video in cui voi due vi incontrate dopo anni al MoMa di New York, durante la sua performance, ha milioni di visualizzazioni su youtube?
«Non mi stupisce: la gente, specialmente i giovani, sa distinguere la realtà dalla finzione. Instagram non è arte... Nel nostro incontro, finito poi come video sul web, c’era emozione, c’era verità: non era uno spezzone di un reality».
È stato doloroso «fare pulizia» del passato?
«No, ma mi emoziona vedere ora le mie opere prendere di nuovo vita anche attraverso le re-performance riprodotte da performer adeguatamente formati, durante la mostra. Provo poi un senso di giustizia. Per troppo tempo la moda, MTV, il cinema hanno sfruttato le intuizioni dei performer senza dare loro la dignità che meritavano: crediti, diritti pagati, adeguato approfondimento critico. Sono felice che il mio lavoro abbia reso la performance una forma d’arte riconosciuta: prima era qualcosa per pochi, si faceva in spazi alternativi, eri felice se c’erano 30 o 40 persone a vederti. Oggi le performance coinvolgono centinaia di persone, entrano nei musei».
C’è una performance che sogna?
«Dovrei chiedere a Elon Musk di portarmi su Marte! Sono curiosa di tutto: ho viaggiato ovunque, ora mi piacerebbe esplorare il cosmo. Sono intrigata dalle infinite possibilità della mente».
Di solito in casa si fa pulizia per far spazio ad altro: questa mostra prelude a qualcosa?
«Intende a un mio prossimo lavoro? Serve tempo...».
Una data c’è: nel 2020, prima donna, sarà invitata a esporre alla Royal Academy di Londra.
«Per ora posso dire che sto ragionando sul tema della dissolvenza, dell’evanescenza: non è detto che tutto debba finire con l’oscurità, può esserci anche la luce. Non aggiungo altro».
Molte delle sue performance passate oggi sarebbero vietate...
«Il politically correct sta uccidendo la creatività. Il 90 per cento dei miei lavori degli anni ’70 oggi sarebbe rifiutato dalle gallerie».
Lei ha messo a nudo, spesso violentato, il suo corpo: che cosa pensa del movimento #metoo?
«C’era bisogno di maggior consapevolezza sul problema così diffuso degli abusi sulle donne, ma la realtà è molto più complessa di una mera prova di forza. Le donne non devono aver paura di essere fraintese».