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 2018  settembre 20 Giovedì calendario

Le pulizie di Marina Abramovic

«Il viaggio deve essere tuo. Nessuno può cambiare ispirato dall’esperienza degli altri». Così esordisce Marina Abramovic (Belgrado 1946), l’artista più popolare al mondo con la sua voce avvolgente e gli occhi scuri come la notte. L’incontro con colei che, da marzo a maggio 2010 al MoMa di New York, ha guardato negli occhi 1545 persone stabilendo un contatto empatico, è un’esperienza totalizzante. «È stata la performance più faticosa – ha affermato – perché è durata tre mesi e quindi è diventata vita». Si apre oggi, a Palazzo Strozzi a Firenze, la sua prima retrospettiva italiana, intitolata Marina Abramovic. The Cleaner, curata da Arturo Galansino, Lena Essling, Tine Colstrup, Humlebæk e Susanne Kleine. I cinquant’anni di lavoro – che partono dalle pitture evanescenti e caustiche mai mostrate prima, per evolvere nelle tappe salienti di azioni autodistruttive e terapeutiche – sono un viaggio sulla pelle dell’artista ma anche sulla pelle sociale estesa lungo il suo percorso. Tutto il suo lavoro contiene il concetto di pulizia (The Cleaner). Lei ha lavato uno scheletro, spazzolato una montagna di ossa di bue a Venezia del 1997 come monito contro le guerre balcaniche. E nel 1974 ha usato il fuoco purificatore al Centro Studentesco di Belgrado per Rhythm 0, mettendosi al centro di una stella infuocata. È stato un lungo percorso di pulizia.
Ma pulizia di cosa?
«Noi pensiamo sempre di pulire la casa nella quale viviamo ma ci dimentichiamo di pulire il nostro corpo fisico e mentale che è l’unica vera casa. Pulire il corpo è creare spazio per l’esperienza perché se il corpo non è pulito la nostra vita è saturata. La pulizia fisica, emozionale e mentale, è quella che dovremmo praticare, astenendoci a volte dal mangiare, dal parlare e facendo esercizi fisici e psichici per raggiungere lo stato di purezza del corpo e dell’anima. La mostra è il prodotto di questa pulizia».
L’arte può aiutare la gente a difendersi dal proprio inquinamento mentale? Lei usa i minerali e la meditazione per la cura del corpo sociale.
«L’artista deve avere una responsabilità sociale molto più grande di quella che ha attualmente. Credo che l’arte debba servire l’umanità. Prima serviva la chiesa, il papa, l’aristocrazia. Ora serve l’industria e gli elementi materiali, ma deve diventare più sociale e spirituale. Deve andare nella profondità della collettività. Il mio lavoro non è limitato al mondo dell’arte è molto più esteso. E questo è stato evidente dalla performance The Artist is Present al MoMa. I turisti vanno nei musei e vedono superficialmente le opere senza fare esperienza di nulla. Al Moma c’erano 86 custodi e quando smettevano il loro turno, toglievano la divisa e si mettevano in fila per porsi davanti a me.
«Ciascuno ha veramente bisogno di sentirsi parte di qualche cosa. Oggi è essenziale. La società ti indirizza su tutto. Cosa devi mangiare, cosa devi indossare, cosa comprare. Devi ritrovare la tua essenza. Il mio lavoro è fatto per dare a tutti la possibilità di esperire questo spazio. La comunità artistica è piccola. L’arte deve essere per tutti, tutti devono avere la possibilità di partecipare. Occorre un apprendimento semplice. Io posso parlare del mio lavoro allo stesso modo con lo spazzino e con il presidente della repubblica, usando lo stesso linguaggio».
Come deve essere l’opera per comunicare?
«L’arte deve essere emozione. Un buon esempio è questo: entri al museo e hai la sensazione di quando sei al ristorante e senti lo sguardo di qualcuno alle spalle, ti giri e vedi che effettivamente sei osservato. Ecco, vai al museo, guardi un’opera e hai una strana sensazione alle tue spalle, ti giri ed è un’opera che ti trasmette energia».
Come i gruppi spirituali, tibetani o aborigeni, hanno influenzato il suo lavoro?
«Hanno aperto i miei orizzonti, la cultura occidentale è così limitata, noi non capiamo la percezione telepatica, abbiamo perso l’intuizione, mentre queste persone hanno la capacità di stabilire contatti».
We are all in the same boat, noi siamo tutti sulla stessa barca, è la frase del manifesto che lei ha realizzato per La Barcolana di Trieste e che il vicesindaco ha contestato poiché ha ritenuto lo slogan propaganda politica antileghista...
«Innanzitutto ho fatto questo lavoro molto prima che venisse bloccata la barca con i rifugiati. Non aveva niente a che vedere con i fatti. Il contesto ha fatto coincidere queste due cose. È incredibile come una frase possa generare il pandemonio. Gli italiani sono emigrati in America, l’intero pianeta si sta muovendo. Dovremmo ricordarci che noi siamo tutti sulla stessa barca. Quella della frase è l’idea di un piccolo pianeta blu perso nel grande spazio nero e noi siamo quel pianeta e se tu vedi questa immagine sei nel giusto contesto.