Corriere della Sera, 20 settembre 2018
Gogol all’Argentina
Il festival «Le stagioni russe» arriva a Roma patrocinato dal ministero della Cultura russa e realizzato dall’ordinanza di Vladimir Putin e del primo ministro Dmitrij Medvedev: il che spiega la presenza di una quantità di auto del corpo diplomatico in piazza Argentina all’uscita dello spettacolo.
Era Il revisore. Una versione, diretto dal georgiano Robert Sturua per il teatro Et Cetera e interpretato da Alexsandr Kaljagin, «insignito del titolo onorario massimo di Artista del popolo nel periodo sovietico» ma pluripremiato anche negli anni successivi. Il revisore, dunque, di Nikolaj Gogol, uno dei pochi classici che si riescono a vedere anche in Italia.
Il più grande critico russo dell’Ottocento, Vissarion Belinskij, al quale si deve l’inizio della fama di Gogol, scrisse: «I tratti distintivi delle opere del signor Gogol consistono nella semplicità dell’invenzione, in un’autentica verità della vita, nel fattore popolare, nell’originalità. Questi sono elementi generici. Poi viene un’animazione comica sempre vinta da un profondo senso di tristezza e di mestizia, e questo è un elemento individuale». Un critico novecentesco, non celeberrimo, conferma: «Sulla soglia del regno letterario stanno essi, Puškin e Gogol, il luminoso e l’oscuro, il riconoscente e il disperato». Di fronte allo spettacolo di Sturua ci si chiede: Tali caratteristiche sono confermate o tradite in quella che viene definita una «versione»? Direi: né confermate né tradite. Vi è, dominante, l’intenzione di essere semplici, per così dire, e popolari. Ma vi è contemporaneamente l’intenzione di essere originali.
Queste due possibilità finiscono con lo scontrarsi, con l’eludersi l’una con l’altra. Promettente è la scenografia di Alexsandr Borovskij, anche lui insignito del titolo di Scenografo Emerito della Federazione Russa: tre grandi pareti ricche di finestre: diciotto frontali e, se non ho contato male, dodici e dodici laterali. Con queste finestre i giochi di luce si moltiplicano e rendono pieno lo spazio vuoto. Vuoto non del tutto: vi sono un immenso lampadario, che si solleva e si abbassa, e una misteriosa carrozzella per disabili.
Vi si siede quasi tutto il tempo Chlestakov, ossia Kaljagin, il (presunto) e temutissimo ispettore generale. Perché temutissimo? Perché la burocrazia cittadina è corrotta o inadempiente o nullafacente. Ma tanto è spaventata da non accorgersi che il tipo non è il revisore annunciato, è un tale che per colui si spaccia e che si approfitta della situazione di vantaggio di cui viene provvisoriamente a godere. Sturua taglia, condensa, sfoltisce, velocizza. Ma con l’«originalità» perde per strada la «verità della vita» di cui parla Belinskij.
In tutti gli interpreti vi è qualcosa di artificioso, di meccanico, di intenzionale: si vuole colpire l’immaginazione dello spettatore, lo si vuole stupire, o con i canestri di fiori o con gli effetti sonori. Mi sono piaciute Natalija Blagich e Christina Gagua, moglie e figlia dell’invasato sindaco, Vladimir Skvorcov.