Corriere della Sera, 10 settembre 2018
Rivolte truccate e guerra tra tribù. Così soffoca il governo Sarraj
Niente pace per la Libia. L’attacco ieri mattina contro gli uffici della Compagnia petrolifera nazionale (Noc) nel cuore della capitale è parte di un lungo processo di destabilizzazione, iniziato dallo scoppio della rivoluzione il 17 febbraio 2011, che venne poi garantita dall’intervento militare occidentale un mese dopo. Non sono chiari i responsabili. Che siano uomini di Isis? Pare che almeno un paio, su forse sei, avessero cinture esplosive. Forse quattro i morti, compresi due attentatori, e una decina i feriti. È invece alla luce del sole lo scontro tra la Cirenaica di Khalifa Haftar, che oggi coagula sempre di più il fronte di forze legate al vecchio regime di Muammar Gheddafi, e il governo di Fayez Sarraj, che da Tripoli si presenta come l’espressione anarchica di milizie e partiti nati dalla rivoluzione. Ieri le due fazioni non hanno mancato di lanciarsi accuse sulle responsabilità dell’attentato. Ma l’elemento evidente è che Sarraj non regge. Ha fallito, le milizie che lo sostengono sono troppo divise. E l’appoggio dell’Onu e di parte della comunità internazionale (tra cui l’Italia) non basta più.
Tutto ciò in continuità con la storia della rivolta libica, sin dalle prime battute. Da soli infatti i ribelli non sarebbero mai andati da nessuna parte e, se non ci fosse stato l’intervento Nato, l’ex regime sarebbe ancora in piedi. È vero che il governo francese fu tra i maggiori fautori dell’attacco militare. Furono tra l’altro i missili tirati dai Mirage di Parigi quella mattina del 20 ottobre 2011 alla periferia di Sirte a fermare il convoglio di Gheddafi, poi linciato a morte, con un centinaio di fedelissimi. Ma allora la maggioranza dei politici e del pubblico nei Paesi Nato simpatizzava per la rivoluzione. Uno dei pochi contrari fu Silvio Berlusconi. Rimase inascoltato.
L’intervento Nato, approvato dalle Nazioni Unite, mutò la situazione sul campo. Il primo attacco del 20 marzo fu lanciato con missili e jet americani, francesi e inglesi contro il lungo convoglio di gheddafiani che da Sirte si dirigeva su Bengasi. Fu un massacro. Centinaia di morti in decine di carri armati, camion, cingolati carbonizzati dalle bombe. Ma per noi giornalisti fu sorprendente osservare quanto marzialmente i soldati reclutati dalle tribù che sostenevano Gheddafi erano in grado di reagire. Pur battuti, privi del controllo dell’aria, dimostravano una capacità di combattimento ammirevole. I resti della colonna devastata si ritirarono per trincerarsi ad Ajdabia, 160 chilometri a ovest di Bengasi. Le milizie ribelli non riuscirono a scacciarli. Fu necessario ancora l’intervento aereo Alleato per snidarli.
La dinamica di quelle prime battaglie rimase invariata. Avvenne ovunque: durante i combattimenti lungo i terminali petroliferi nel deserto, a Sirte, per porre fine all’assedio di Misurata, nella sfida per Khmos e le altre città costiere, sino a Tripoli a metà agosto. Quasi subito fu evidente che, nonostante la propaganda della rivoluzione, non era affatto vero che le truppe del Colonnello fossero «tutti stranieri mercenari neri africani». In effetti, venivano in maggioranza dalle tribù libiche a lui tradizionalmente alleate. La rivoluzione appariva sempre meno guerra di liberazione e vieppiù sanguinosa guerra civile. Il fatto che però fosse tanto fortemente assistita dagli Alleati occidentali ne stravolse le dinamiche per la scelta della leadership. Mancò infatti quel processo di selezione interna del più forte che in genere caratterizza le rivolte sociali violente. Tutte le milizie vincevano perché in realtà non erano loro a combattere e rischiare sino in fondo, bensì i loro potenti mentori. Così, alla morte del «rais» i vincitori si posero tutti più o meno sullo stesso piano. Nessuno era stato battuto: tutti potevano comandare. La democrazia fu confusa con il governo di tutti. Ognuno era un eroe. Nessuno voleva obbedire. Venne rapidamente e furbescamente dimenticato il ruolo vitale dei militari Alleati. I jihadisti e i gruppi legati ai Fratelli Musulmani, che in genere hanno una solida struttura gerarchica interna, divennero un polo importante. Le prime elezioni del 2012 e poi quelle del 2014 videro il trionfo della frammentazione, con centinaia di mini-partiti che riflettevano campanilismi tribali, interessi municipali. Era anche il frutto di 42 anni di dittatura fondata sul carisma di un uomo solo, che aveva sempre contrastato qualsiasi istituzione potesse fargli concorrenza.
Oggi la Libia paga il conto di quella vittoria truccata. Sarraj ne fa le spese ogni giorno. Non avendo una propria forza militare, è costretto a mediare con le milizie locali, a capitolare di fronte alla corruzione imperante. Haftar per contro aspira al ruolo di nuovo Gheddafi e guida una parte del vecchio esercito. Con lui oggi stanno Francia, Emirati Arabi Uniti, Russia. Ma anche questo vecchio ufficiale cresciuto nel mito nasseriano della post-colonizzazione deve trattare con le milizie e le tribù, come faceva Gheddafi. A Tarhuna i fratelli Khani della Settima Brigata simpatizzano con i Fratelli Musulmani. E il suo rapporto con gli eredi di Gheddafi deve ancora essere messo alla prova.