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 2018  settembre 10 Lunedì calendario

Il mio Veronesi che amava troppo le donne

«Ecco, guardi qua. Io nelle foto non ci sono mai». Con la sua figuretta agile Susy Veronesi si muove lesta intorno al tavolino basso del salone di via Palestro, dove sono ammucchiate le fotografie d’una vita. «Umberto preferiva farsi riprendere solo con i suoi sette figli, come se li avesse fatti da solo». Malinconia, desiderio, rabbia, ironia. Negli occhi profondi di Sultana Razon, dal nome di un’antica ava forse turca forse spagnola, si rincorrono stati d’animo diversissimi, mostri infernali e creature paradisiache come in un dipinto di Bosch. A 86 anni, a dispetto del fisico molto minuto, emana una forza potente, la stessa che le ha permesso di sopravvivere – lei giovanissima ebrea – al campo di concentramento di Bergen-Belsen. Di avviare a Milano due importanti reparti pediatrici.
E di vincere la sua guerra sentimentale accanto «all’uomo più intelligente, affascinante e inquietante che abbia mai conosciuto».
Inquietante perché?
«Non riuscivo mai a capire cosa ci fosse dietro quel suo sguardo malizioso e beffardo. Umberto è sempre stato inafferrabile. Fin dal principio della nostra storia».
1952, Istituto dei tumori a Milano. Lei ha vent’anni anni, lui sette di più.
«Io studiavo Medicina mentre Umberto era in attesa della docenza. Lo vidi in fondo alla corsia, mentre era chino su un paziente. E mi colpì il suo garbo, la sua rassicurante pacatezza. All’epoca si andava lì a morire perché non c’erano le terapie. Il sorriso di Umberto è sempre stato un faro.
Senza, mi sentivo smarrita».
Ma, dopo essersene innamorata, perse la pace.
«La nostra è stata una storia d’amore molto tormentata. Per otto anni ci frequentammo con un trasporto fisico che ci travolgeva ovunque, ma Umberto non ne voleva sapere né di matrimonio né di figli. Non voleva nessun genere di legame. E se abbiamo resistito così a lungo è anche perché l’ho lasciato libero».
Cosa c’era dietro questa sua inquietudine?
«Una passione totalizzante per il suo lavoro. Voleva fare sempre di più. E poi non creda che per lui sia stato facile vincere la battaglia sulla quadrantectomia, la tecnica che ha rivoluzionato l’intervento sul seno.
Aveva contro i chirurghi americani.
E ne ricordo l’ansia palpitante nel dimostrare l’attendibilità delle sue ricerche».
Una rivoluzione che lo consacrò amico delle donne.
«Sì, Umberto amava moltissimo le donne, forse anche troppo. Era un irrefrenabile don Giovanni e la gelosia ha infelicitato la mia esistenza. Lui mi ha sempre rassicurato dicendomi che erano solo scappatelle. Ma non è stato sempre così».
Non mi ha ancora raccontato come lo fece capitolare.
«Era il Natale del 1960, stavamo insieme da tanto tempo, e lui con quel suo modo garbato mi annunciò che avrebbe trascorso le feste dalla Luisa, una splendida ragazza bionda. Basta, impossibile andare avanti così. In quel periodo mi faceva la corte un tenore ebreo newyorchese venuto a Milano per migliorare la sua voce. Dick era molto innamorato, io molto arrabbiata con Umberto. Così cedetti alla sua richiesta di matrimonio. E proprio mentre eravamo in casa per decidere la data delle nozze – era il marzo del 1961 – sentimmo squillare il campanello: era il portinaio con in mano un grammofono e il disco della Seconda Sinfonia di Rachmaninov per violini e orchestra. L’avevamo sentita con Umberto in un momento particolarmente felice».
La vedo male per il povero Dick.
«Mi precipitai di sotto senza neppure il cappotto e vidi Umberto che mi aspettava dentro la macchina prestata dal fratello. Ci abbracciammo come pazzi, i corpi fusi in un’unica persona. E a quel punto mi disse: Susy sposami».
Gli abbracci. Il libro della vostra storia d’amore è pieno di abbracci molto potenti, quasi rabbiosi.
«Quando Umberto tornava dai suoi viaggi, c’era sempre quel genere di abbraccio. Spariva il mondo, pure i ragazzi. Forse da parte mia era il desiderio inconscio di catturarlo, di tenermelo tutto per me, ma non è stato facile».
Anche in sala parto se l’è sempre cavata da sola.
«Per il primo figlio è stato presente, per i successivi cinque è comparso a cose fatte. Mi affidava a un’équipe medica straordinaria, ma lui aveva sempre molti impegni».
La considerava una roccia.
«Sì, Umberto si appoggiava a me.
Ero sopravvissuta al campo di Bergen-Belsen, avrei saputo cavarmela con la direzione di due reparti pediatrici, la conduzione di una casa e ben sei figli. Non c’era niente che mi spaventava. E lui percepiva la mia forza».
Le ha mai domandato del campo di concentramento?
«No, mai. Era un tabù. Poi io mi vergognavo di raccontargli quello che avevo vissuto, l’orrore dei morti, il pudore offeso quando venivamo costretti a fare i nostri bisogni a pochi centimetri l’uno dall’altro.
Eravamo carne da bruciare. Non potevo parlarne con Umberto».
Mi ha colpito che anche lei incappò nella malattia che ha reso celebre suo marito.
«Sì, avevo avvertito un nodulo nella mammella ma era impossibile farmi visitare da lui. Finché una domenica mattina lo minacciai: se non lo fai ora, vado da un altro. Lui mi pose una mano sul seno e impallidì: pochi giorni dopo ero sotto i ferri ma non creda che mi abbia tenuto a lungo nella sua clinica. Serviva il letto e fui rispedita a casa. La prima chemioterapia la feci da sola, così tutto il ciclo di radioterapia.
Umberto non mancò di darmi il suo sostegno. Ma la sua vita non subì alcuna variazione».
Si sarebbe aspettata qualche attenzione in più?
«Non saprei dire. Io mi ero abituata così. Per anni l’ho aspettato finché compariva a casa verso le dieci sera, quando non era fuori per congressi.
Poi mi è arrivata la tegola dell’altra famiglia. Una mattina dell’89, mentre andavamo nella nostra casa al lago, mi disse con un tono serio che da quattro anni aveva un figlio da un’altra donna. Mi sentii gelare e lo guardai sbalordita. Pensavo di aver capito male e glielo feci ripetere due volte. A quel punto credetti di morire. Tornati a casa, lo invitai ad andarsene, ma lui mi chiese di restare. Diceva che voleva finire la sua vita con me. E io glielo permisi: i figli avevano ancora bisogno del padre».
In fondo anche lei desiderava che lui restasse.
«Sì, anche io avevo bisogno di Umberto. Continuavamo a dormire nello stesso letto, ciascuno rincantucciato dalla propria parte, ma tra noi era sceso un grande freddo. Provavo rabbia, sperdimento. Per anni avevo avuto un incubo notturno, una donna bionda che insidiava il nostro amore. Devo dirle che con la vecchiaia ho mutato i miei sentimenti, provando anche dispiacere per la madre del bambino: allevare un figlio da sola, senza il conforto costante di un uomo accanto, deve essere stata molto dura».
Ha avuto modo di dirglielo?
«C’è stato un momento in cui ci siamo rappacificate. A quindici anni Francesco ha cominciato a frequentare la nostra casa, con grande felicità dei suoi fratelli. Era il settimo figlio che non avevo avuto.
Poi però le cose tra me e la madre si sono complicate. Lei non ha gradito affatto la pubblicazione nel 2013 del mio libro autobiografico Il cuore, se potesse pensare. Mi ha accusato di aver messo in piazza i nostri problemi».
Anche suo marito non apprezzò.
«Fui costretta a ritirare la prima edizione uscita da Rizzoli e ne scrissi una versione edulcorata. La sua figura magnifica ne era stata come ridimensionata e lui ci rimase molto male. Un amico lo prese in giro: tua moglie te l’ha fatta, eh».
Perché lei volle render pubblica la vostra storia?
«È stata una liberazione. Ero rimasta sempre nell’ombra. E, una volta andata in pensione, sentii il bisogno di far sentire la mia voce.
Con i figli non avevo mai parlato di me, della fame e della persecuzione, della storia con il padre tra gioie e tormenti. E di quel fratellino comparso adolescente.
Sentivo l’urgenza di raccontare. E non a caso scelsi come esergo le parole di Pessoa che ben mi rappresentavano: "L’incoscienza è il fondamento della vita. Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe"».
La vecchiaia ha messo fine alle vostre tempeste.
«Sì, il don Giovanni s’è placato e io finalmente l’ho avuto tutto per me.
Dopo aver perso tante battaglie, alla fine ho vinto la guerra».
Lui aveva espresso il desiderio che fosse lei ad aiutarlo a morire.
«Me l’ha chiesto, ma io non ho voluto: avevo ancora bisogno della sua presenza, della sua voce calma e carezzevole. Anche se stava male, continuavo ad ascoltarlo come un oracolo. Il giorno prima della sua morte, ero china su di lui quando mi sorprese con un soffio di voce: "Susy, sei così bella". Quelle sue ultime parole non mi abbandonano. In fondo tutto il resto non conta».