La Stampa, 10 settembre 2018
Intervista a Virginia Raffaele
In Come quando fuori piove, la nuova serie tv di Discovery in onda da domani su Nove, Virginia Raffaele si trasforma. Diventa quattro personaggi diversi, con in comune una cosa sola: l’auto. «Quando sei in macchina ti senti al sicuro. E, in un certo senso, anche costretto. Per questo tutte le storie partono con un respiro di libertà e poi diventano delle vere gabbie». Ci sono Giorgiamaura e Saveria, rispettivamente aspirante cantante e attrice; e ci sono Susanna e Gregoria, una novella sposa e un’anziana professoressa di economia.
Con Saveria condivide la passione per il regista Pedro Almodóvar.
«È uno dei miei tanti miti. Mi diverte a volte mettere delle cose personali nei personaggi: cose nascoste che conosco solamente io, ma che mi aiutano a entrare nella parte».
Giorgiamaura, invece, ha la sua stessa ostinazione: non vuole fermarsi.
«“C’avevo il sogno da sognare e l’obiettivo da obiettare”, come direbbe lei. La determinazione in questo lavoro è fondamentale. Non sono figlia di gente dello spettacolo - anche se mia nonna faceva la cavallerizza -, e non ho avuto agganci di alcun tipo. Tutto ciò che è arrivato me lo sono guadagnato poco per volta. Le delusioni sono state tante, ovviamente. Come in tutte le carriere».
Ha detto: «C’è chi ama il mondo dello spettacolo e chi ama lo spettacolo». In che senso?
«Il mondo dello spettacolo, spesso, viene visto superficialmente. E c’è chi vuole solo apparire. Chi ama lo spettacolo, invece, ama questo mestiere. E prova a farlo come si deve, con una soddisfazione che va oltre il riconoscimento pubblico».
L’etichetta di imitatrice non le piace.
«Il mio lavoro è sempre quello dell’attrice: interpretare e vivere vite differenti dalla mia. Lo faccio anche quando interpreto dei personaggi esistenti, aggiungendoci la mia visione».
Da che cosa nasce la voglia di recitare?
«Da più bisogni o da più dolori, o da più divertimenti. L’altro giorno leggevo un’intervista che hanno fatto a Jim Carrey. Gli chiedevano quanto l’arte possa aiutare a guarire dal malessere dal quale, spesso, si è mossi. Perché è così, c’è sempre qualcosa che muove».
Nel suo caso?
«Non ha per forza a che fare con la vanità o con la presunzione. Io da piccola non ho mai pensato di fare altro».
Spesso l’associano a Fiorello, ma in effetti ha più cose in comune con Jim Carrey.
«Io sono pazza di Fiorello. È sempre stato un mito per me. Dal punto di vista attoriale, però, ho una passione per Jim Carrey. Ha questo modo di giocare con la mimica facciale che è una cosa che faccio anche io ogni tanto».
Meglio la tv o il teatro?
«Sono linguaggi differenti. C’è bisogno sia dell’uno che dell’altro, soprattutto in questi tempi nei quali viviamo. Sono strumenti importanti da maneggiare con cura. Non bisogna chiudersi solo nel teatro. E non bisogna essere snob nei confronti della tv».
In un’intervista a La Stampa, Maria De Filippi ha definito la televisione un elettrodomestico.
«Ah, lo definisce così? E che ce fa, i frullati? Lei c’ha il televisore che fa i caffè. Ma forse, a volerla paragonare a un elettrodomestico, la televisione potrebbe essere un estrattore: spreme le persone fino in fondo».
Interpreta pochi politici.
«È una scelta. Io mi diletto di più nella satira di costume. Per parlare di politica, devi essere particolarmente preparato. Ogni tanto capita anche a me di “intrupparmici”, come ho fatto con la Boschi e la Pascale».
Probabilmente in un paese diverso dall’Italia avrebbe avuto più spazio e possibilità. Ci pensa mai?
«La verità è che altrove c’è un’altra cultura. Ci sono degli stand-up comedian come Ricky Gervais, per esempio, che fanno dei monologhi abbastanza cattivi. Ma è un tipo di comicità che in Italia, forse, non funzionerebbe. Mi sentirei un’ingrata se dicessi che avrei potuto avere di più. Ringrazio ogni giorno la vita per fare un lavoro che amo, e non sono democristiana: è vero».
Parliamo di Sanremo.
«Sì, lo ammetto: sto scrivendo una canzone… (ride)».
Scherzi a parte, l’hanno chiamata per la prossima edizione?
«No, questo no».
Ma a lei piacerebbe?
«Sono così cauta nel lavoro che devo pensare una cosa alla volta altrimenti vado in ebollizione».
L’ultima volta, però, non è andata male.
«È stato bellissimo, c’è stato un apprezzamento che non mi aspettavo. Quello dell’Ariston è un palco che ogni volta ti fa ripensare a una cosa sola».
Che cosa?
«“Ma perché ho scelto de fa’ ‘sto lavoro?” Nei pochi secondi prima di entrare in scena, cerchi una scusa per non farlo».