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 2018  settembre 11 Martedì calendario

Immigrati nostrani e canadesi

Corrado Augias Caro Augias, non posso firmare quanto le scrivo perché non voglio essere attaccato dagli” odiatori” professionisti e per non danneggiare i progetti che sostengo. Da oltre due anni la nostra piccola realtà associativa è impegnata anche nell’accoglienza di richiedenti asilo. La Prefettura ci ha chiesto la disponibilità a occuparci di un primo gruppo, poi di un secondo, poi di altri. Abbiamo accettato e il progetto sta funzionando: gli adulti imparano e in qualche caso già lavorano, i bambini e i ragazzi sono studenti modello, si preparano per fare la loro parte in un’Italia civile. Da molti mesi, però, il pagamento dei servizi già resi è sempre più ritardato e frammentario; chi ha anticipato le risorse si trova con le spalle al muro. Il potere politico dei feroci e degli inetti usa la burocrazia come la garrota del franchismo: ogni giorno un nuovo cavillo. L’ultima richiesta è esemplare: dotarsi di una nuova Pec da dedicare alla corrispondenza con la mail nucleocrisi. sbarchi@ interno. it. Non gestione ma” crisi”, non persone ma” sbarchi”. Un momento storico cruciale, portatore di sfide e problemi ma anche di grandi opportunità, guardato dal buco della serratura della paura e dell’odio preventivi. – Lettera firmata – Afronte di questa lettera ne pubblico un’altra che le fa da specchio, nel senso che ne rovescia l’immagine. Me l’ha mandata il professor Riccardo Castellana dell’Università di Siena: «Sono in cima alla Robarts Library, la grande biblioteca di Toronto, al tredicesimo piano. Da quassù vedo i college dell’Università, i campi di hockey, le strade gremite di gente. Dietro, gli specchi dei grattacieli e lo spillo della Cn Tower; più oltre, oggi che il cielo è limpido, anche l’altra riva del lago Ontario, gli Usa. Scendo in strada. Gli studenti che dall’alto mi sembravano figurine di un videogame sono – mi accorgo – per più di metà asiatici. Parlano inglese perfettamente, ma anche mandarino, coreano, vietnamita. Oggi, in Queen’s Park, c’è persino una allegra manifestazione dei cristiani di Corea (non sapevo che esistessero): l’orchestra con gli occhi a mandorla e in abito scuro se ne sta sopra un lungo autotreno blu, mentre la gente danza con costumi colorati e grandi croci sul petto. Quando attraversi i viali alberati, o meglio ancora quando entri a Chinatown e ti avventuri in quei centri commerciali con le grandi scritte solo in cinese, ti accorgi di essere l’unico caucasico. Eppure, non hai mai la sensazione di essere diverso, perché qui tutti sono diversi: vestono, parlano, mangiano ciascuno a suo modo, ma sono tutti canadesi. E non ti senti neanche insicuro o a rischio. Qui in Canada la politica di riconoscimento delle identità, avviata negli anni Settanta, funziona bene ed è un esempio di quello che potrebbe accadere anche da noi, se tutti fossimo più ragionevoli e lungimiranti. Vorrei tanto che Salvini e i suoi elettori fossero qui e vedessero».