Il Messaggero, 10 settembre 2018
E il videogioco entra nel museo della regina
Arte e tecnologia: i videogiochi sono una combinazione unica e spesso disordinata di questi due elementi. Dietro alla veste grafica si nascondono design, musica, tecnica e letteratura che a volte neppure i musei dedicati riescono a far cogliere al pubblico. Non è il caso del Victoria and Albert Museum di Londra che – tra gli oltre 3.000 pezzi esposti – l’8 settembre ha inaugurato VideoGame: Design/Play/Disrupt, una mostra sui videogiochi poco convenzionale che resterà nella capitale inglese fino al 24 febbraio 2019. L’esposizione organizzata dal museo londinese delinea un modo differente di intendere i videogame e, in generale, le mostre di videogiochi.
Non più una cronistoria di come si è passati dalle astronavi di Spacewar! – primo videogioco distribuito su larga scala nel 1961 – a Detroit: Become Human, ultimo titolo ideato da David Cage, in cui lo sceneggiatore francese si è messo a giocare con emozioni e aspettative dei gamer. Piuttosto si tratta di un percorso in cui – tra teche e pareti multimediali – viene snocciolata l’anima più nascosta dei videogiochi. «Vogliamo soprattutto puntare i riflettori dietro le quinte, perché anche chi gioca regolarmente non sa come vengono creati i videogame e quanto lavoro, talento e dedizione ci voglia per realizzarli – spiega Marie Foulston, direttrice della mostra Vogliamo sfidare i preconcetti e i pregiudizi per raccontare la realtà del complesso mondo dei videogames».
DESIGN
Per la sezione Design, sono stati selezionati 8 giochi che, per cura e bellezza, hanno segnato l’ultimo quindicennio. Tra questi non poteva mancare Journey, un titolo per PlayStation 3 che ha emozionato tanto fin dal 2012. Nel gioco – famoso per la sua atmosfera sognante – un viaggiatore incappucciato si ritrova a dover attraversare un vasto deserto per raggiungere una montagna visibile in lontananza. Nulla di più agli occhi dei gamer, almeno fino ad ora: il V&A Museum svela l’anima del viaggio non solo con immagini e filmati che hanno ispirato i produttori ma anche con i quaderni, le mappe, gli schizzi, le stringhe di codice e gli algoritmi che sono serviti a realizzarlo. E così anche per Bloodborne, Splatoon o The Last of Us, ma soprattutto per un capolavoro indipendente come Kentucky Route Zero in cui i curatori hanno trovato riferimenti a un dipinto di Magritte, a un romanzo di Faulkner e ad alcune scene di una rappresentazione teatrale di Morte di un commesso viaggiatore di Miller.
Sulla stessa linea trovano spazio le semplici quanto intense elaborazioni grafiche dietro The Graveyard, un titolo che chiede al giocatore di impersonare un’anziana donna all’interno di un cimitero. La protagonista, in visita ai suoi cari, vaga tra stradine e lapidi alla ricerca di una panchina su cui sedersi.
DISGREGAZIONE
Un’intera sala è invece ai videogiochi come disrupting object e cioè come prodotti capaci di aprire un varco nella quotidianità, spingendo alla riflessione su temi difficili. Trovano quindi spazio giochi come A series of gunshots capace di una riflessione profonda sull’eccessivo utilizzo di armi da fuoco oppure come Phone Story che ricostruisce abusi e forzature commesse dalle aziende per produrre smartphone. Un titolo che, a testimonianza del suo valore, vanta l’essere stato bandito dall’app store di Apple. Nell’enorme stanza campeggia anche un maxi-schermo dove scorrono le interviste realizzate ad alcuni degli ideatori di questi progetti, e c’è un passaggio tutto italiano.
Town of Light è un videogame creato dallo studio nostrano Lka nel 2016 che si è impegnato a raccontare un tema difficile: la tragica storia di una giovane ragazza rinchiusa nell’ospedale psichiatrico di Volterra durante il periodo fascista. Un titolo che riporta alla luce le condizioni disumane in cui sia lei che gli altri pazienti venivano tenuti all’interno del manicomio. Viene quindi ridimensionata la concezione dei videogiochi come fenomeni violenti e mirati esclusivamente a un pubblico giovane e maschile, oltre che bianco e occidentale.
I FILMATI
In una piccola arena invece, alcuni filmati analizzano le diverse sfumature aggregative dei videogame online. Dei brevi cortometraggi ritraggono gli sforzi dei giocatori di Minecraft, che si uniscono per ricreare luoghi fantasy – come nel caso dell’universo di Game of Thrones – e impersonare all’interno del gioco le storie a loro legate; ma anche i 7500 giocatori di Eve Online che hanno partecipato alla più grande battaglia multiplayer nella storia dei giochi connessi; oppure il filmato della squadra che ha vinto il titolo mondiale 2017 di League of Legends, sfidandosi davanti a 90.000 spettatori dal vivo nello stadio di Pechino (e milioni in più in streaming). Superato il maxi schermo, i curatori hanno previsto un piccolo salto nel passato offline con una sala giochi dedicata ad alcune stramberie in stile vintage. Il modo giusto per chiudere il percorso di Design/Play/Disrupt; perché sì, i videogame hanno spesso un’importanza diversa da quella che gli viene riconosciuta, ma è anche vero che restano, soprattutto, dei giochi.