il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2018
Quando Marchionne scoprì che la concorrenza era il male
In morte di Sergio Marchionne, il suo più assiduo biografo aggiorna corposamente il lavoro già pubblicato nel 2009 e nel 2011 sempre con il cognome del protagonista come titolo, e propone un primo giudizio. Grazie a Dio, Marco Ferrante resta fedele alla serietà e alla sobrietà del cronista. Per anni ha pedinato e interrogato Marchionne ma non pensa come altri (politici, sindacalisti, economisti, giornalisti) di sostituirsi al defunto per insegnarci come si vive. Al contrario la proposta di valutazione storica (“un’occasione mancata”) stigmatizza come il manager abruzzese sia passato sull’Italia come acqua su una pietra. “La sua storia non è stata rappresentativa di qualcosa oltre Marchionne. Potrebbe essere stato un marziano a Torino, un caso, un episodio, un fatto accidentale, più che il segnale di un cambiamento nella struttura del nostro capitalismo e delle nostre classi dirigenti.” Insomma, in Italia “Marchionne è stato considerato soprattutto uno spunto di dibattito”. Combustibile per chiacchiere, un po’ come la vita sessuale del suo coetaneo Harvey Weinstein.
Il libro di Ferrante regala uno spunto prezioso per il lettore curioso che voglia indagare la riduzione del fenomeno Marchionne da occasione storica ad argomento per talk show. È la rievocazione della famosa conferenza del 29 aprile 2015 significativamente intitolata Confessions of a capital junkie (Confessioni di un drogato del capitale). Quando gli venne affidata la Fiat nei giorni drammatici e concitati dei funerali di Umberto Agnelli, a fine maggio del 2004, lo sconosciuto Marchionne, che non aveva mai lavorato in Italia, apparve un personaggio del tutto eccentrico rispetto alla gretta cultura provinciale del capitalismo nazionale. Il suo primo approccio ai temi sindacali fu questo: “È inutile picchiare su chi sta alla linea di montaggio pensando di risolvere i problemi. Quando si perdono tre milioni di euro al giorno e uno pensa che sia colpa degli operai, vuol dire che ha perso qualche ponte sulla sua strada”. Quando poi il conflitto si apre, e culmina nei drammatici referendum di Pomigliano d’Arco e Mirafiori, il capitalismo straccione della Confindustria attiva i suoi corifei sindacali, accademici e giornalistici per fare di Marchionne il campione della mitica flessibilità finalizzata alla competizione internazionale. Come se la modernità consistesse nella gara a chi sfrutta nel modo più feroce gli operai per battere la concorrenza.
Nello stagno mefitico del declinante capitalismo italiano, sedicenti imprenditori e opinionisti a libro paga hanno fatto di Marchionne il loro profeta, facendo credere al popolo dei loro impiegati che fosse andato per il mondo a predicare flessibilità e competizione. Tutto ciò non è solo falso ma anche privo di senso. I junkies del paradiso artificiale della competizione, come tutti i drogati, si rifiutano di rispondere a una domanda: la competizione è bella anche per chi perde? La domanda è tanto più decisiva in quanto oggi sono proprio gli italiani a perdere, e non per colpa dei sindacati.
E infatti. Marchionne quel 29 aprile risponde da par suo alla domanda. Ricorda Ferrante che, in un impietoso ritratto del mercato mondiale dell’auto, il numero uno di Fiat-Chrysler denuncia come la concorrenza tra troppi grandi gruppi determini un’enorme distruzione di ricchezza. “Marchionne spiega che le imprese automobilistiche sopportano interi capitoli di costi che potrebbero essere dimezzati se si andasse verso una nuova stagione di fusioni. La cifra più impressionante è quella che riguarda ricerca e sviluppo. Rispetto ai 76 miliardi di euro spesi nel 2010, nel 2014 la spesa globale del settore auto in r&s era arrivata a 122 miliardi di euro. Più di due miliardi alla settimana solo per immaginare e programmare il futuro. Idem per il settore degli acquisti di componenti non identitari (vetri, sportelli, sedili, parti di motore, eccetera eccetera) da mettere a fattor comune. Solo con la riduzione di questi costi il settore auto potrebbe far crescere la remunerazione del capitale investito. Le joint venture e gli accordi su singoli modelli o singole piattaforme non sono sufficienti, spiega. Bisogna andare verso le fusioni”.
La realtà del capitalismo globalizzato non è una novità del terzo millennio. La concorrenza pesa sui conti perché alcuni costi si moltiplicano per il numero dei concorrenti. Il monopolio sarebbe da questo punto di vista il sistema industriale più efficiente se non generasse (come insegnano la storia sovietica e i viadotti della società Autostrade) altre inefficienze più gravi e drammatiche. Ma soprattutto, quando la concorrenza genera le inefficienze descritte da Marchionne, i più deboli sono destinati a essere colonizzati dai più forti o a uscire dal mercato. Ecco perché il capo di Fca parlava di fusioni. E aveva un’idea concreta, precisa: unire il suo gruppo con la General Motors, allora terza nel mondo dopo Volkswagen e Toyota. Solo che Mary Barra, la figlia dell’operaio arrivata al vertice di Gm, gli disse di no: non aveva bisogno di lui perché era la più forte.
Il figlio del carabiniere emigrato in Canada ci ha insegnato che, in un sistema in cui (tra vicini di casa o tra continenti) c’è chi sfrutta e chi viene sfruttato, la competizione è bella solo per chi vince. Lasciate perdere i propagandisti a gettone, è questa la lezione di cui essere grati a Marchionne.