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 2018  settembre 10 Lunedì calendario

Un laureato su tre non è al posto giusto

Francesco, 26 anni, laurea con 110 e lode in scienze politiche, lavora saltuariamente per una cooperativa sociale. Riccardo, 23 anni, diploma di liceo scientifico, è invece rappresentante di prodotti agroalimentari. Marina, 25 anni e una laurea in filosofia, effettua da qualche tempo consegne di pizze a domicilio e ha deciso di iscriversi a settembre a un master di specializzazione. Tre casi emblematici che traducono nella realtà quello che i numeri registrano con sempre più evidenza. In Italia è ancora forte il gap tra scuola e lavoro, tra quello che si studia e quello che poi si mette in pratica nel mondo del lavoro. Almeno nei primi anni successivi al conseguimento del titolo.
L’istantanea scattata sui microdati Istat – mettendo sotto la lente i lavoratori laureati tra i 25 e i 34 anni (1,1 milioni) e quelli diplomati tra i 20 e i 24 (678mila) – restituisce l’immagine di 437mila giovani con un titolo di studio più elevato rispetto a quello richiesto per svolgere il lavoro per il quale sono stati assunti.
Si tratta del 18% dei diplomati e del 28% dei laureati: tra i primi la sovraistruzione è più marcata tra gli uomini (riguarda il 24% dei maschi contro il 9% delle femmine), mentre tra i secondi accade il contrario (il 30,5% delle laureate è iperqualificato rispetto al 20,1% dei maschi). Numeri che scontano ancora gli effetti della crisi economica: il “plotone” degli overeducated si è infatti allargato rispetto sia ai 372mila giovani del 2008 sia ai 398mila del 2015. 
Negli anni più recenti ha inciso l’avanzata della gig economy, l’economia dei “lavoretti” che coinvolge tra i 600 e i 750mila lavoratori in Italia. Non si tratta solo dei riders che consegnano cibo a domicilio attraverso piattaforme digitali. Ci sono anche baby sitter e badanti, addetti alle pulizie, traduttori di testi, consulenti di design che propongono i propri servizi tramite il crowdwork, il lavoro dato in outsourcing sul web. Tra i gig worker il 18% ha un diploma di liceo, il 10% una laurea triennale, il 14% una magistrale e il 6% un master o addirittura il dottorato di ricerca, secondo la Fondazione Debenedetti.
Se restringiamo l’obiettivo sui laureati, il fenomeno della overeducation è più o meno ampio a seconda dell’indirizzo. Si va dal minimo dei medici (10,6%) al massimo di laureati in area umanistica e nelle scienze sociali (entrambi intorno al 36%). Due categorie, queste ultime, che comprendono i dottori in lettere e filosofia, quelli in storia, archeologia, lingue straniere. Ma anche sociologi, laureati in scienze politiche, psicologia e giurisprudenza. Per chi si specializza in questi indirizzi si può dire che, in media, nei primi anni dopo il titolo oltre un terzo di quelli che lavorano trovano sbocchi per cui la laurea è un surplus. «Le imprese – commenta Maurizio Del Conte, presidente Anpal, l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro – da un lato non trovano le competenze tecniche di cui hanno bisogno, dall’altro spesso finiscono per utilizzare i giovani con lauree “deboli” per mansioni di basso livello. Pesano la mancanza di orientamento scolastico e un sistema di formazione che è troppo lento nel rispondere ai continui cambiamenti del mercato». 
C’è poi un problema di “mismatch”, mancata corrispondenza: «Il 35% dei lavoratori è occupato in un settore non correlato ai propri studi – sottolinea Stefano Scarpetta, capo della direzione Lavoro dell’Ocse -. Questo disallineamento nelle qualifiche e nelle competenze è un aspetto chiave della situazione strutturale dell’economia italiana: a fronte di miglioramenti nei tassi di occupazione, la produttività del lavoro è addirittura diminuita, riaprendo un gap crescente con altri paesi avanzati, come Stati Uniti, Germania e Francia».